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  • Sociologia urbana e sociologia

    Sociologia e città

    Il rapporto della sociologia generale con la sociologia urbana si distingue in modo netto da quello con le altre sociologie specializzate. In questo caso, infatti, non ci troviamo di fronte al rapporto gerarchico fra disciplina-madre e sub-disciplina, con la prima che fornisce alla seconda il quadro teorico e i principali strumenti concettuali; al contrario, siamo in presenza di una relazione peculiare che assegna alla sociologia urbana un ruolo fondante della sociologia generale. Il sorgere della città moderna segna infatti una tappa decisiva nel superamento dalle società tradizionali, superamento che è il focus della sociologia classica. L’interesse per il fenomeno urbano, dunque, consegue anzitutto dal fatto che la città è un fattore di emancipazione rispetto agli ordini sociali tradizionali e alle loro espressioni territoriali.

    «L’aria della città rende liberi», ricorda Weber ne La città [1920]. E per molti sociologi, nella fase di affermazione accademica della disciplina, la «grande città» come ambito sociale di particolare complessità e di estrema differenziazione, nelle sue potenzialità e nelle sue patologie, svela meccanismi e conseguenze del processo di modernizzazione. In questa fase fondativa – cui Weber e Tönnies, Simmel e Durkheim danno contributi seminali – si gettano appunto le basi della sociologia.

    Cent’anni dopo, le patologie metropolitane – povertà, conflittualità, violenze, malattie, degrado ambientale – riaprono in qualche modo per la sociologia le prospettive analitiche più classiche nella storia della disciplina mentre la consapevolezza dell'impatto rinnovato della globalizzazione sui fenomeni sociali riporta mobilità e territori al centro dell'analisi sociale. Ai «fatti sociali formati nello spazio» [Bagnasco 1994], spazio metropolitano in primo luogo, ma non solo, tornano ad interessarsi i maggiori sociologi occidentali, mentre la sociologia delle città e dei territori esce di nuovo dai confini di sub-disciplina nei quali si era raccolta nelle fasi di intenso sviluppo empirico, fra le quali spiccano l’esperienza della Scuola di Chicago tra le due guerre [Park et al. 1925] e il variegato filone di studi di matrice marxista che caratterizzò il panorama intellettuale degli anni Sessanta-Settanta [Katznelson 1982].

    La ricostruzione continua dei confini dei sistemi sociali e delle modalità di costruzione identitaria sociale ed individuale sotto l'influsso dell'insieme dei fenomeni raccolti sotto il termine di globalizzazione riporta infine con evidenza negli ultimi decenni i temi della relazione tra individui, gruppi e territorio al centro della teoria sociologica.

    La fine dell’equilibrio bipolare, i processi di globalizzazione e la compressione del rapporto spazio/tempo nella circolazione di persone, merci e informazioni hanno determinato una radicale trasformazione che non sempre gli attori istituzionali tradizionali (in primo luogo i governi nazionali) sono stati in grado di governare. Una trasformazione che a livello territoriale ha investito in pieno la struttura preesistente, mettendo in discussione la tradizionale filiera istituzioni sovranazionali – stato nazione – regioni – livello subregionale o provinciale – singola unità urbana. Questa filiera è stata frammentata in una serie di istanze territoriali che agiscono secondo gradi diversi di autonomia e secondo una logica di aggregazione che infrange le appartenenze consolidate e ne sperimenta di nuove.


    Sociologia, città, sistemi urbani

    Risulta ormai evidente l’inefficacia del termine stesso di «città» per designare una vasta gamma di processi, funzioni, significati e attori a livelli territoriali diversi. La nozione di «sistema urbano» ci pare in genere più adeguata a descrivere i mutamenti avvenuti a quel livello territoriale che un tempo si sarebbe definito «periferico», e che oggi assume una nuova autonomia e un nuovo protagonismo.

    Nel delineare i contenuti della nozione di sistema urbano bisogna partire dal concetto di sistema e dall’utilizzo che di esso si fa nelle scienze sociali. Nell’accezione a noi utile, si definisce sistema  un insieme di attori individuali e collettivi, pratiche, codici e attività dotati di una coerenza interna, di confini che ne delimitano lo spazio rispetto all’ambiente, e di meccanismi che ne regolano l’equilibrio e la continuità nel tempo.

    Dal punto di vista degli elementi analitici, dunque, ciò che risalta sono i seguenti aspetti:

    1)       una pluralità di attori;

    2)       un complesso di pratiche, attività e codici, che possono essere più o meno formalizzati;

    3)       dei confini rispetto all’ambiente circostante, che determinano le condizioni strategiche dell’appartenenza e/o estraneità al sistema;

    4)       dei meccanismi interni di controllo, che garantiscono quelle attività produttive-riproduttive senza le quali il sistema non avrebbe stabilità e continuità nel tempo.

    Nel caso di quel sistema che chiamiamo sistema urbano, l’elemento che più di ogni altro va messo in risalto è quello dei confini. Rispetto a molte altre classi di sistemi che è possibile passare in rassegna analiticamente, infatti, un sistema urbano non può prescindere dall’individuazione di una precisa collocazione spaziale. Inoltre, sotto il profilo del riferimento all’urbanità va precisato che la definizione di sistema urbano non si limita al concetto tradizionale di città, ma ne comprende una molteplicità di varianti: dalla rete di città confinanti alle aree metropolitane, dalle comunità montane alle molteplici altre formule che mettono in relazione attori territoriali delle più svariate specie. Un altro elemento analiticamente determinante è quello che riguarda il dinamismo dei sistemi urbani. Essi sono soggetti a un continuo mutamento di confini, che porta a spinte verso l’inglobamento o la frammentazione. L’elemento del dinamismo, inoltre, ha una dimensione non soltanto territoriale, ma anche politica e socio-economica: sistemi urbani possono essere creati anche fra unità territorialmente distanti, ma accomunate nelle logiche di azione da fattori aggreganti che fanno passare la prossimità spaziale in secondo piano. Ciò compromette un elemento strategicamente ineludibile nelle analisi classiche della costruzione sociale dello spazio: l’esclusività dell’appartenenza locale e dei confini di legittimità. Ma indica anche nella dinamica vitale dei sistemi, nei meccanismi della loro genesi e della loro decadenza, nella riflessione sulle modalità della loro strutturazione qualcosa che somiglia alla nuova frontiera della sociologia urbana. Basti ricordare per ora che la gestione dei servizi, la programmazione dell’intervento pubblico, la mobilità quotidiana si ridisegnano su confini che esulano dalle dimensioni strette delle città storiche, confini tra di loro intersecanti, contraddittori. Come si ricostruiscono, in questo contesto, le appartenenze? Come si legittima la leadership politica? Quello sulle aree metropolitane non è solo un dibattito legato all’ingegneria istituzionale utile per ristabilire equità e per ottimizzare la gestione dei servizi. Esso è parte di una problematica più ampia: la costruzione di cornici e procedure di rappresentanza e di partecipazione adatte a un milieu urbano fatto di appartenenze molteplici e fluide.

    Al termine di "città", alle varie combinazioni lessicali di maggiore uso che la integrano oggi, torneremo tuttavia per comodità, pur nella consapevolezza del divario tra i fenomeni territoriali che oggi denominiamo "città" e quelli che ancora un secolo fa erano designati con lo stesso termine.

    Il corso introduce ai, diversi, approcci sociologici all'analisi del ruolo assunto da tali "città" nell'arena globale contemporanea, soffermandosi successivamente sui seguenti aspetti.

    1. La “seconda rivoluzione urbana”: Urbanizzazione ed urbanesimo nel XXI secolo; Le migrazioni verso le città, nazionali ed internazionali; La megacittà: modelli formali e sociali; Modalità di sprawl urbano

    2. Le città nell’arena economica: Città globali e sistema mondo;Descrivere le gerarchie urbane: le nuove città dominanti; Città e finanza globale; La città hub; La città creativa; La città e le sue risorse ambientali e paesaggistiche

    3. Le città nell’arena politica: Le città come attori competitivi; Politiche urbane delle organizzazioni internazionali; Politiche urbane europee; Movimenti urbani transnazionali; La città nella carriera politica; Città e civicness

    4. Le città nell’arena giuridica: La città come erogatore di diritti; Alla ricerca di nuovi ambiti di gestione: le città metropolitane; Confini in ricostruzione: fusioni e forme di cooperazione settoriali; La metropoli transfrontaliera; Le reti di città

    5. Le città nell’arena culturale: Urbanesimo e rurbanesimo oggi; Archistar e città; Città e patrimonio; Spazi pubblici ieri ed oggi; Migranti in città; Governare la città multietnica







  • La "seconda rivoluzione urbana"

    Nonostante le ricorrenti denunce di un presunto declino dell’urbanesimo ma anche della inarrestabile omologazione funzionale e culturale dei territori, si è negli ultimi decenni affermata una nuova «rivoluzione urbana». Nelle cosiddette «città globali» si concentrano le risorse per la direzione del sistema economico mondiale, mentre le mega-città del Terzo Mondo diventano il polo problematico dei difficili processi di modernizzazione dei paesi meno sviluppati; il fenomeno della «diffusione urbana» conferma l’obsolescenza del concetto di città e suscita drastiche revisioni dei modelli di descrizione e di intervento.

    Due citazioni, estratte da manuali di sociologia italiani, illustrano come nel breve intervallo di pochi decenni, nel nostro contesto culturale, il binomio città-campagna, elemento di raccordo tra la sociologia dei fondatori e quella della rinascita nel secondo dopoguerra, sia stato sottoposto a drastica revisione, ma anche come l'interpretazione delle relazioni tra città e mutamento economico e sociale possa variare in pochi anni.

    Alla fine degli anni Settanta città e campagna sono ancora considerate due realtà talmente diverse da consentire molte semplicistiche interpretazioni causali di mutamenti strutturali, come quella proposta nel Dizionario di sociologia:

    L’urbanizzazione ha conseguenze rilevanti e durature in parecchi campi. Non c’è dubbio che essa contribuisca a ridurre, fino eventualmente ad annullarlo, il tasso di incremento della popolazione. Più controverse quanto ad aspetti specifici ed entità, ma altrettanto certe nell’insieme, sono le modificazioni di vari attributi biopsichici della popolazione inurbata; è provato che dopo una o due generazioni essa presenta statura media più alta, eloquio più rapido, pubertà maschile e femminile più precoce e vita media più lunga della popolazione rurale. Gli effetti sulla mobilità sociale sembrano differire a seconda dei paesi e delle epoche [Gallino  1978].

     Negli anni Ottanta diverse ipotesi convergono invece nel delineare un ineluttabile declino per la città e una sua progressiva assimilazione in un conglomerato «rurbanizzato» (cfr. più avanti): inedia demografica delle grandi concentrazioni insediative, erosione delle centralità funzionali, mediatizzazione dei rapporti politici.

    Proprio nei paesi industrializzati avanzati sembra oggi delinearsi un pro- cesso del tutto nuovo: la perdita di rilevanza non soltanto della distinzione tra città e campagna, ma della stessa localizzazione fisica delle attività produttive come del potere politico. In regioni completamente urbanizzate (o quasi), dove la campagna si è trasformata a immagine della città e dove l’assenza di caratteristiche urbane riguarda solo zone scarsamente popolate – foreste, deserti, montagne e via dicendo – non sussiste più la città nel senso tradizionale del termine. La città infatti non possiede più specificità nei confronti del territorio circostante, delle aree rurali non urbanizzate a cui si contrapponeva; e se ancora la possiede, tende a perderla. D’altra parte le industrie e le attività produttive non hanno più bisogno di concentrarsi in determinati luoghi: hanno soltanto bisogno di essere collegate, ma a ciò provvedono le vie di comunicazione e, in misura crescente, le reti informatiche. Anche il potere politico, pur rimanendo localizzato in istituzioni che hanno sede nelle capitali e nelle altre città, pur traendo da questa localizzazione parte del suo residuo significato simbolico, non riveste più un carattere specificamente urbano. I mezzi di comunicazione di massa hanno sostituito il rapporto diretto tra la classe politica e il resto della popolazione, l’intervista televisiva ha preso il posto del comizio o dell’adunata; mentre l’informatica provvede alla raccolta e alla trasmissione dei dati necessari al funzionamento dell’apparato amministrativo. La città sta così cessando di essere il luogo del potere non già perché si sia trasferito altrove, ma perché il potere non richiede più un centro fisico in cui insediarsi e da cui espandersi [Ceri-Rossi 1987, 580-581].


    Negli anni Novanta si impone, in sociologia a partire dai lavori seminali di Saskia Sassen sulla "città globale", una contrapposta immagine di mondo globalizzato assai gerarchizzato. Le città sono di nuovo nell'immaginario popolare percepite come i potenti "centri" del mondo globale.

    Così descrive Sassen l'avvento della "città globale":

    "Una combinazione di dispersione spaziale e di integrazione globale ha creato un nuovo ruolo strategico per le maggiori città. Superando il loro ruolo storico di centri per il commercio internazionale e l’attività bancaria, queste città oggi ricoprono funzioni centrali sotto quattro ulteriori aspetti: come luoghi di potere altamente concentrato nell’organizzazione dell’economia mondiale; come localizzazioni chiave delle imprese di servizio specializzato e delle attività finanziarie; come luoghi della produzione, inclusa la produzione di innovazioni, in questi settori di punta; come mercati per i prodotti e le innovazioni prodotte [...]. Tali mutamenti nel funzionamento delle città hanno un impatto massiccio sull’attività economica internazionale e sulla forma urbana. Le città concentrano il controllo su vaste risorse, mentre la finanza e le attività di servizio specializzate hanno ristrutturato l’ordine urbano, sociale ed economico. Un nuovo tipo di città è quindi comparso. È la città globale [1991, 3-4]".

    Nei lavori della Sassen (i primi lavori sul settore informale a New York e Los Angeles tra il 1984 e il 1987, quello sulla mobilità del lavoro nelle città del 1988, la loro summa intitolata Global Cities, 1991) viene progressivamente precisato il modello sociologico corrispondente a questa posizione egemonica nell'economia globale. Alla struttura produttiva tipica di queste forme urbane – dominata dai servizi, finanziari e manageriali in primo luogo, piuttosto che dalla produzione manifatturiera – corrisponderebbe una inarrestabile polarizzazione sociale. Da una parte le città globali vedono crescere il numero dei fornitori di servizi, dei liberi professionisti e dei manager attivi in questi settori; dall’altra la struttura industriale tradizionale perde la sua vitalità, e decresce in particolare la parte di manodopera operaia qualificata che ne era risorsa fondamentale.

    Negli ultimi decenni si è fatto ricorso ad una vasta gamma di concetti per descrivere le trasformazioni dei sistemi urbani nonché delle relazioni tra territori. Di matrice disciplinare assai diversa, quasi tutti sono diventati di uso corrente nella pubblicistica, perdendo spesso le loro precise e diversificate connotazioni originali, connotazioni tutte utili invece nella descrizione sociologica.

    Una breve messa a punto terminologica e storica è quindi necessaria, partendo dalla nozione di globalizzazione.


    1. Globalizzazione e sistemi urbani

    1.1 Interdipendenza, sistema-mondo, globalizzazione
    Affrontando il tema della globalizzazione, non è infrequente trovarsi davanti alla questione preliminare riguardante l’effettiva sussistenza del fenomeno. Da più parti, infatti, emergono dubbi sulla novità del processo, sul suo corso effettivo, sul rischio di una sua mitologizzazione; e si fa largo il dubbio che «globalizzazione» sia null’altro che un nome nuovo conferito a processi già esistenti. Il rischio è che «globalizzazione » sia soltanto una di quelle «categorie narrative» che a partire da un certo momento si impongono nel discorso pubblico e assumono una posizione strategica pur in assenza di una rigorosa definizione. Di ciò si è detto pressoché sicuro Alain Touraine, il quale ha parlato di un’ideologia della globalizzazione [1996], a lasciar intendere che non si tratti di un processo concreto, quanto piuttosto di una «grande suggestione».  Per alcuni, la globalizzazione è progetto politico, neoliberale (Ohmae 1992, Chomsky 2002, Bourdieu 1998), movimenti come il Forum Internazionale sulla Globalizzazione si dichiarano in fase iniziale come movimenti anti-globalizzazione, prima di cercare modalità alternative di gestione dei fenomeni compresi sotto il termine (Held 2002).


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    Consensi e controversie relative alla Globalizzazione

     Consensi

    -          La globalizzazione è modellata dal mutamento tecnologico

    -          Involve la riconfigurazione degli Stati

    -          Si accompagna a modalità di regionalizzazione

    -          E’ irregolare

     

    Controversie

    -        La globalizzazione è essenzialmente economica o multidimensionale?

    -          Che cos’è “globalizzazione”?

    -          E’ un processo recente o un processo storico di lunga durata?

    -          Esiste  o è retorica, “globaloney”?

    -          E’ capitalismo neoliberale?

    -          Si può gestire la globalizzazione?

    (da Nederveen Piterse J. , 2004, p.8)

    Più diffuso e condiviso è l’interrogativo sui processi principali che fanno oggi da motore alla intensa interdipendenza di regioni del mondo anche distanti tra di loro, economici, politici, o culturali.

    L’opinione maggioritaria al cambiare del secolo era quella che assegna agli interessi economici il ruolo di elemento trainante della globalizzazione; sempre più accreditata tuttavia è anche la versione che assegna un peso strategico alla crescente integrazione comunicativa del pianeta.

    Estremamente variegata, infine, la gamma delle conseguenze che ai processi di globalizzazione viene ascritta: conseguenze di tipo culturale, giuridico, politico, militare.

    Cos’avrebbero dunque di così diverso i processi di globalizzazione, rispetto ad analoghi fenomeni di interdipendenza, da richiedere una nuova etichetta per qualificarli? L’elemento da rimarcare è la differenza fra il concetto di «globale» e altri concetti usati per indicare un assetto delle relazioni fra il tutto e le parti, e fra le singole parti che hanno caratterizzato il vocabolario delle scienze sociali.  È il termine anglosassone di globalization ad imporsi rapidamente nel dibattito internazionale ed a quello si rifà il dibattito italiano.  È da notare però che non in tutti i contesti linguistici si ricorre ad una sua traduzione letterale: i sociologi francofoni usano il termine di mondialisation, perdendo così, come vedremo, qualche ulteriore possibilità di distinzione semantica.

    Per illustrare nel modo migliore questa mutazione concettuale è utile costruire una coppia dicotomica che aiuti a collocare efficacemente il concetto di globale. Nel caso di «globale», il concetto di riferimento per la costituzione della dicotomia è «locale». Fissato un termine di contrapposizione, risulta più agevole delineare i contenuti del concetto di «globale», e individuare le differenze fra tale concetto e altri concetti che sono stati equiparati ad esso senza però esserne sinonimi.

    * Sul piano dei contenuti, con il concetto di «globale» si indica un modello di relazioni fra attori, funzioni e processi che supera i vincoli di fedeltà politico-territoriali tradizionali per inaugurarne di alternativi. I modelli tradizionali di fedeltà sono quelli collegati alle filiere territoriali che si snodano a partire dallo stato-nazione: nel caso italiano, tale filiera è formata in sequenza da stato centrale, regione, provincia, comune, più quelle realtà territoriali intermedie fra le ultime due (come, per esempio, le comunità montane). Questo assetto di sistema comporta che ogni attore (un’azienda, un governo locale, un cartello di imprese), processo (ricerca di alleanze, conduzione di conflitti, negoziazione) e funzione (comunicazione, produzione, allocazione) compresi nella filiera rispondano a un rigido vincolo gerarchico che assicura una rigida appartenenza istituzionale, politica e culturale, con subordinazione di ogni livello inferiore a quelli superiori. Viceversa, un assetto di sistema globale consente ad attori, processi e funzioni di by-passare la filiera delle fedeltà tradizionali per cercare un nuovo equilibrio al di fuori di quello gerarchicamente garantito dallo stato-nazione. Tale nuovo equilibrio viene raggiunto seguendo alternative ritenute maggiormente vantaggiose rispetto a quelle fissate dai vincoli gerarchici tradizionali. L’esistenza di un livello «globale» dei processi presuppone un simmetrico livello «locale». Quest’ultimo è il piano concreto nel quale attori, processi e funzioni applicano strategie e indirizzi definiti secondo una logica globale. La peculiarità del «locale», anche in questo caso, è quella di connettersi al livello globale by-passando i vincoli di fedeltà e la filiera istituzionale-territoriale che fa capo a uno stato-nazione.

    Il rapporto globale/locale è dunque caratterizzato da un grado molto basso di relazione gerarchica fra i due termini e i fenomeni che essi etichettano. Questo elemento di «de-gerarchizzazione» marca una chiara differenza fra il concetto di «globale» e altri erroneamente indicati come sinonimi.

    Uno di questi è il concetto di «centro», inteso come grado di massima concentrazione di processi e funzioni di un sistema di relazioni. Il termine di riferimento per la costruzione di una dicotomia è in questo caso quello di «periferia»: che rappresenta un livello di bassa autonomia nelle scelte strategiche, e di alta dipendenza dal livello centrale per l’attribuzione delle risorse. Il «centro» è dunque il luogo collettore di risorse, poteri, strategie per la regolazione dei bisogni che si presentino ai livelli periferici del sistema. Il modello di regolazione che in questo caso viene adottato ha natura spiccatamente gerarchica.

    Quello tra centro e periferia, secondo una classica lezione politologica [Rokkan 1970], è uno dei cleavages decisivi per la formazione dei sistemi politici moderni. Ma la vitalità di questa dicotomia nelle scienze sociali è dovuta anche, come ha mostrato in modo approfondito Edward Shils [1961], alla forza analitica che essa offre nello studio delle strutture e dei processi sociali, indipendentemente dal loro ancoraggio concreto a un riferimento territoriale. Secondo questo approccio, un sistema ha non soltanto un centro territoriale immediatamente riconoscibile, ma anche:

    – un centro di potere, che gode del primato nell’individuazione degli scopi da perseguire nel sistema e nella scelta delle apposite strategie;

    – un centro funzionale, che gestisce i processi e la distribuzione delle risorse verso la periferia;

    – un centro simbolico, che organizza e amministra i significati all’interno del sistema;

    – un centro valoriale (il cosiddetto «sistema centrale di valori», secondo la definizione di Shils), che definisce quanto è giusto o sbagliato, lecito o illecito, auspicabile o deprecabile.

    Rispetto alla dicotomia globale/locale, quella centro/periferia mostra una netta asimmetria. Il rapporto tra centro e periferia è quello fra «uno e molti»; mentre quello fra globale e locale è fra «molti interconnessi». Inoltre, nelle relazioni di tipo globale esiste la possibilità che si costituiscano diversi «centri» per necessità esclusivamente funzionali e per un breve-medio periodo, fino all’esaurimento di quella specifica funzione che ne aveva motivato la formazione.

    Questo carattere «policentrico» della relazione globale/locale segna dunque un tratto differenziale rispetto alla relazione centro/periferia, che viceversa presenta un carattere «monocentrico». La presenza di diversi centri, rispetto all’unico che coordina una pluralità di periferie, fa sì che i primi siano «centri direzionali», al contrario del secondo che è «centro strutturale». I centri direzionali sono snodi sui quali convergono attività e funzioni, in vista di un’ottimizzazione delle risorse e delle possibilità; viceversa, i centri strutturali assumono un primato nella definizione delle strategie generali, nell’attribuzione delle priorità e nell’assegnazione dei compiti. La relazione globale/locale può essere applicata all’analisi di una gamma di oggetti e fenomeni molto vasta [Perulli 1993], che faccia comunque riferimento alla nozione di sistemi complessi e integrati. La sua principale caratteristica è quella di portare alla costante messa in discussione degli equilibri maturati.

    *Un altro concetto messo in rapporto con «globale» è quello di «mondiale », che si riferisce a una specifica dimensione geo-politica. Quando si parla di «mondiale», i riferimenti forti sono lo stato-nazione e i suoi confini. Strettamente legato, da un punto di vista semantico, al concetto di «mondiale» è quello di «internazionale», che designa infatti un criterio delle relazioni fra territori nel quale i confini assolvono una funzione cardine.

    La differenza che passa fra mondiale (o internazionale) e globale fa capo a due diverse logiche di integrazione. Un assetto mondiale si basa su una logica di integrazione che assegna alle fedeltà statali-nazionali un primato assoluto, e fa dunque dello stato-nazione il principale criterio di alignement; viceversa, un assetto globale prevede che attori e processi si integrino seguendo la logica della piena autonomia e della capacità negoziale. Il dato più significativo nel passaggio a una logica di integrazione globale è la progressiva evanescenza e perdita di imperatività da parte delle fedeltà statali-nazionali.

    Nel complesso, il concetto di «globale» (nella relazione con quello di «locale») designa un livello, sia analitico sia empirico, in cui assume peso determinante una logica di «configurazione», da intendersi come capacità di rinegoziare continuamente gli equilibri necessari e sufficienti di una situazione in costante evoluzione.

    Se i concetti di «centro» (nel suo rapporto con la periferia) e di «mondiale » (come orizzonte dello stato-nazione e delle relazioni internazionali) rimandano a equilibri di sistema statici e scarsamente revisionabili, l’idea di «globale» (nel suo rapporto col «locale») scommette sul continuo negoziato per l’aggiornamento di equilibri che, viceversa, sono equilibri di processo, soggetti a ripensamenti e adeguamenti successivi.

    Box 2

    Mondializzazione e globalizzazione

    Un esempio di differenza fra mondializzazione e globalizzazione può essere quello della diffusione mondiale dell’automobile come mezzo di locomozione che in breve tempo si trasforma in oggetto di consumo e stile di vita.

    La mondializzazione dell’automobile si ha quando la produzione industriale nel settore, unita allo sviluppo delle condizioni infrastrutturali, consente ai manufatti (le automobili) di raggiungere i mercati di ogni parte del pianeta.

    In questo assetto di sistema la produzione è fortemente centralizzata, il prodotto risponde a logiche standard di progettazione, e la sua diffusione segue un percorso top-down (dall’alto in basso). Viceversa, si ha una globalizzazione dell’automobile come fenomeno di consumo e stile di vita quando la produzione dei manufatti viene frazionata all’interno di unità produttive che possono essere dislocate in territori fra loro molto distanti (anche in stati-nazione diversi), e quando linee di produzione specifiche vengono deputate allo sviluppo di manufatti da piazzare su mercati specifici (un esempio è dato dalla Fiat, che produce modelli di automobile soltanto per il mercato sudamericano).

     Al centro della distinzione fra mondializzazione (o internazionalizzazione) e globalizzazione sta, secondo molti studiosi, il ruolo dello stato-nazione. Il periodo di massima salute di quest’ultimo come struttura cardine dei processi politici, economici e istituzionali ha prodotto, attraverso il fenomeno della «mondializzazione», il sistema delle relazioni internazionali, regolato dalle diplomazie, dai vincoli protezionistici e dalle barriere doganali. Lo scarto che intercorre fra «mondializzazione » e «globalizzazione» segna, in questa prospettiva, l’instaurarsi di una diversa qualità dell’equilibrio, con la perdita del ruolo centrale dello stato-nazione e un diverso rapporto tra i singoli attori, i territori e le rispettive sovranità.

     

    Che si parli di mondializzazione-internazionalizzazione o di globalizzazione, la maggior parte degli studiosi a lungo concentra l’attenzione sulla dimensione economica.

    Immanuel Wallerstein ha elaborato la teoria del «sistema-mondo» nella sua trilogia sul «sistema mondiale dell’economia moderna» [1974-89]. L’autore sostiene che, in una determinata fase storica che coincide con il XVI secolo, lo sviluppo dei mercati locali nei paesi dell’Europa occidentale porta i commerci a cercare ulteriori spazi di diffusione seguendo una «linea di minor resistenza». Viene così a crearsi un sistema integrato di relazioni economiche la cui diffusione copre progressivamente l’intero spazio planetario. Wallerstein parla di «sistema» perché le diverse aree economico-territoriali, facenti capo a una sovranità nazionale e delimitate da confini ben distinguibili, sono implicate in una divisione internazionale del lavoro fra zone centrali e zone periferiche.

    L’assetto descritto da Wallerstein disegna una situazione dei rapporti di interconnessione fra le economie locali che, come si accennava più sopra, prevede un ruolo di perno per gli stati-nazione: è attorno a questo ruolo strategico che i commerci e i mercati prendono forma, secondo uno schema che bilancia politiche liberoscambiste e protezioniste, di dinamizzazione e di ostacolo.

     Negli anni Novanta, la ricerca economica tende similmente a mettere in rilievo il peso degli Stati-Nazione nel determinare i nuovi equilibri globali. È il caso nell’indagine comparata dell’economista Michael E. Porter, che lo porta a teorizzare il «vantaggio competitivo delle nazioni» [1990] come insieme delle condizioni che un assetto istituzionale-territoriale nazionale garantisce agli attori economici. Un vantaggio competitivo su base nazionale sarebbe, secondo questa analisi, non soltanto il risultato di misure protezionistiche e di tutela degli attori economici da parte dello stato-nazione, ma anche la conseguenza della particolare architettura politica, economica e istituzionale che si realizza a partire dalle peculiarità del territorio e delle culture nazionali. Certo, lo stesso studio di Porter sottolinea la presenza, all’interno di ciascuno stato-nazione, di regioni più dinamiche di altre, che assumono un ruolo trainante per la prestazione complessiva dell’economia nazionale. Interrogandosi sulla persistenza dello stato-nazione come attore decisivo dei processi politico-economici, Porter tuttavia ribadisce che anche in presenza di forti identità politico-economiche subnazionali e di spiccati dinamismi regionali, il «vantaggio competitivo» strutturato attorno al centro statale ha l’effetto di disinnescare le tentazioni particolaristiche.

    Altri studiosi, già negli stessi anni, vedono la globalizzazione come un processo di lungo periodo che non si limita all’aspetto meramente economico.

    Secondo Roland Robertson [1992], esso si sviluppa a partire da variabili di diversa natura e in un arco di tempo che per ampiezza ricalca grosso modo quello indicato da Wallerstein. Robertson individua cinque fasi della globalizzazione.

    – La prima fase (che si sviluppa fra il XVI e il XVIII secolo) è quella che viene definita «germinale»: essa registra il tramonto del transnazionalismo medievale e l’affermazione delle comunità nazionali.

    – La seconda fase (che si concentra fra il XVIII secolo e il 1870) è quella della globalizzazione «incipiente»: in essa, superato il periodo di strutturazione degli stati-nazione, si articola un sistema di relazioni internazionali.

    – La terza fase (concentrata fra il 1870 e gli anni Venti del XX secolo) è quella del «decollo»: essa registra un’aperta conflittualità fra stati su scala mondiale, per la costruzione di un nuovo equilibrio geopolitico basato sulla forza.

    – La quarta fase (fra gli anni Venti e i Sessanta del XX secolo) è quella della «lotta per l’egemonia»: in essa si ha la divisione del mondo in due blocchi e la realizzazione di un difficile equilibrio di conflitto e controllo reciproco fra le due superpotenze.

    – La quinta e attuale fase, infine, è quella dell’«incertezza»: in essa si registra la perdita di riferimenti geo-politici, economici e culturali certi.



     1.2. Flussi culturali globali e contesti di ricezione

     Un altro aspetto di grande rilievo per la lettura dei processi di globalizzazione è quello relativo ai flussi di comunicazione e alla progressiva copertura telematica del pianeta.

    L’idea di «villaggio globale» proposta da Marshall McLuhan [1989] ha posto le premesse teoriche e simboliche per l’analisi di un mondo in cui le informazioni si muovono in circuiti sempre più integrati. L’espansione delle reti comunicative ha fatto sì che la circolazione e la disponibilità delle informazioni siano immediate e costanti. Un mutamento così profondo ha prodotto conseguenze di carattere non soltanto tecnologico o informativo: molte cose sono cambiate anche nelle culture locali e nel loro rapporto col mondo esterno. L’esposizione di queste culture ai flussi comunicativi internazionali, favorendo un contatto accentuato fra stereotipi, immagini precostituite, narrazioni, ha posto le condizioni per il sorgere di un fenomeno che è stato definito «creolizzazione » [Hannerz 1992], intesa come ibridazione delle identità locali e dei relativi contenuti. L’accentuato scambio di contenuti culturali ha fatto emergere il problema della diversa «potenza di fuoco» tecnologica che le singole culture possono far valere. Su questo versante si apre la tematica del cosiddetto «imperialismo culturale» [Tomlinson 1991], ovvero l’influenza generalizzata di una o poche culture su tutte le altre, in ragione di una maggiore potenza economica e tecnologica. Ciò avverrebbe con la diffusione, da parte della superpotenza superstite (gli Stati Uniti d’America), di tecniche di dominio globale come la «persuasione comunicativa » (il soft power di cui parlano Nye e Owens [Nye 1990; Nye-Owens 1996]) o la crescente standardizzazione delle pratiche e degli stili di  vita e di consumo, ben riassunta dal concetto di «mcdonaldizzazione» [Ritzer 1996; 1999]. Tale prospettiva è contestata da autori che preferiscono sottolineare l’importanza dei «contesti di ricezione» [Thompson 1995; Lash-Urry 1994] nell’elaborazione delle informazioni provenienti dalle «grandi centrali comunicative». Allo stesso modo, il già citato Robertson indica nell’«appropriabilità» (come inclinazione a essere mutuate e rielaborate secondo codici locali) una delle caratteristiche essenziali delle istituzioni globali.

    La “teoria dei flussi culturali globali” proposta da Appadurai in Modernity at Large (1996) attribuisce all’individuo migrante un ruolo di protagonista nella costruzione di questi contesti culturali pur nella cornice costrittiva di affermazione del “capitalismo cognitivo-finanziario”.  Dall’insieme di flussi di persone (ethnoscapes), di simboli (mediascapes), di tecnologie (technoscapes), di idee (ideoscapes), l’individuo seleziona le componenti a partire dalle quali struttura la sua esperienza.  Ed è proprio partendo dalla riflessione sulla migrazione che alla fine del secolo si aprono nuove strade nella riflessione sulla globalizzazione.

    La globalizzazione è conseguenza della modernizzazione, afferma Giddens (1990). Storici ed antropologi denunciano proprio questa associazione. Per comprendere i fenomeni attuali di intensificazione dei contatti tra uomini e culture, è necessario, affermano, adottare invece una visione temporale più ampia:

    Tale sensibilità storica è profondamente diversa dalla visione eurocentrica che attribuisce l’unificazione umana principalmente ai viaggi della modernità. Se l’integrazione globale è  primariamente un fenomeno moderno, allora appartiene alla catena storica di viaggi europei di esplorazione seguiti da espansione, imperialismo, colonialismo e decolonizzazione […] Questa visione si accompagna ad una retorica di profondo sciovinismo occidentale, e generalmente, di pessimismo […]. Contestualizzare le modernità significa ritrovare la nostra storia collettiva di migrazioni dimenticate e di percorsi di identità che collegano il pianeta (Nederveen Pieterse 2004, 26).

    Non si contesta qui l’esistenza stessa del fenomeno “globalizzazione”, ma vi si vede l’intensificazione di fenomeni di integrazione globale che, pur con varie modalità, hanno sempre segnato la storia dell’umanità.

    Per analizzare i fenomeni migratori internazionali e il loro impatto contemporaneo sul significato delle frontiere, in politica e nelle scienze sociali, partendo dall’antropologia anglo-sassone (Glick Schiller, Basch, Szanton-Blanc 1992, Portes, Guarnizo, Landolt 1999), si sta così imponendo un approccio ai mutamenti sociali globali che recupera il termine di “transnazionale” e muta lo sguardo sociologico sulla “globalizzazione” e sulla costruzione delle strutture sociali.  Esso mette in rilievo la capacità di azione del migrante ed i mutamenti culturali ed istituzionali di cui è portatore.


    2. Urbanizzazione ed urbanesimo

    Le “città” del mondo globale sono il prodotto di processi di trasformazione socio-territoriale per cui, nella tradizione sociologica, vengono usati, con connotati specifici, termini per altro di largo uso, sui quali è quindi necessario  fermarsi preliminarmente.

    - Concetto di riferimento basilare per quanto attiene ai processi di trasformazione territoriale è quello di «inurbamento», con il quale si indica la migrazione di popolazione dalle campagne alle città. È utilizzabile per descrivere gli spostamenti di massa, l’esodo di proletariato dalle fattorie alle fabbriche della rivoluzione industriale europea nel XIX secolo, ma anche la persistente concentrazione di popolazione nelle mega-città del Terzo Mondo, o movimenti di popolazione di minor entità come l’insediamento dei ceti aristocratici nelle città di corte oppure il ritorno alla città dei ceti benestanti nel quadro di processi di imborghesimento (gentrification) di alcuni suoi quartieri.

    - L’inurbamento delle popolazioni ha per conseguenza strutturale l’«urbanizzazione», vale a dire l’aumento della quota di popolazione che vive in città. Nel processo di urbanizzazione si usa distinguere una componente primaria e una componente secondaria.

    - «Urbanizzazione primaria» è detta quell’urbanizzazione provocata dal consolidamento economico della città e dalla conseguente offerta di posti di lavoro, che corrisponde ad esempio all’affermazione della città come centro industriale o come centro amministrativo. Un’urbanizzazione primaria sostenuta si rileva ad esempio nell’Italia dell’ultimo dopoguerra con l’affermazione del «triangolo industriale», ma anche nell’espansione urbana sotto la spinta della crescita dell’amministrazione e dei servizi nella Napoli del Settecento.

    - L’«urbanizzazione secondaria» avviene, invece, di riflesso, o comunque senza corrispondere ad una crescita significativa della capacità dell’insieme urbano di produrre ricchezza economica: è  quella  delle città meridionali degli anni Sessanta, che spesso funzionano come tappe nell’esilio delle popolazioni rurali verso la città settentrionale, ma diventano anche non di rado luoghi di insediamento stabile; è  quella tipica dei paesi sottosviluppati, nei quali la città rimane, secondo l’immagine ormai classica, il barattolo di miele verso il quale si precipitano i più disperati.

    - Con il termine di «de-urbanizzazione» o quello, coniato da Berry [1976] di «contro-urbanizzazione» si descrive negli anni Settanta un movimento di abbandono delle città osservato prima negli Stati Uniti e che si suppone doversi progressivamente estendere alle città europee; sarebbe fattore ed effetto, secondo alcune interpretazioni radicali, di un vero e proprio fenomeno di de-urbanesimo, vale a dire di abbandono non solo delle città, ma anche dello stile di vita urbano.

    - Gli studi comparati condotti alla fine degli anni Settanta suggerivano che la crescita demografica si distribuisse anche in Europa secondo uno schema denominato negli Stati Uniti «Downwards, Outwards, Across», vale a dire dal più grande al più piccolo, dal centro all’esterno, dal vecchio al nuovo. Hall e Hay [1980] sulla base dei dati dei censimenti dal 1950 al 1971, e quindi Cheshire e Hay [1989] sulla base di dati del 1980, descrivono secondo questo schema l’evoluzione demografica delle Functional Urban Regions europee (insiemi urbani metropolitani definiti sulla base di criteri strutturali e funzionali, concetto ancora di riferimento nella statistica pubblica di molti paesi. Si supponeva allora che le aree metropolitane fossero entrate in una fase di decentramento con contrazione tappa finale di un processo plurisecolare, durante la quale la crescita della cintura non fosse sufficiente per compensare la perdita di vitalità del centro, e nella quale, quindi, si contrae demograficamente tutta l’area metropolitana. Tendenze già attive nella fase precedente si sarebbero approfondite: la gentrification (imborghesimento) del centro si sarebbe associata al declino economico-strutturale nel provocare emigrazione dall’intera area.

    L’ipotesi del declino urbano trova riscontri concreti negli anni Settanta nella striscia urbana europea di più antica industrializzazione, che va da Genova a Torino per poi attraversare la Francia dell’Est e del Nord, la Saar e la Ruhr, il Belgio, le Midlands, il Nord-Ovest e il Nord- Est dell’Inghilterra, Glasgow e Belfast, aree nelle quali la perdita di vitalità demografica veniva interpretata come effetto di una insufficiente compensazione della contrazione del settore manifatturiero con l’espansione del terziario [Cheshire-Hay 1989]. Quell’ipotesi, però, si scontra visibilmente dagli anni Ottanta con molti andamenti demografici.

    Altri termini sembrano allora più adatti per descrivere i fenomeni in atto, come ad esempio quello di «ex urbanizzazione». È il termine generico che meglio permette di evocare la trasformazione socio-territoriale che investe gli insiemi urbani con la diffusione di strade e automobili, consistente in una espansione fisica della città e nella tendenza dei cittadini a vivere in aree residenziali situate all’esterno di essa, pur mantenendo uno stile di vita urbano: una situazione, quindi, nella quale continua ad affermarsi l’urbanesimo, pur venendo meno l’urbanizzazione. Questa tendenza di trasformazione, con diversi momenti di accelerazione e con diversa intensità, segna la storia recente di realtà urbane per altro assai diverse, e collocate in diverse regioni del mondo.


     -  La «suburbanizzazione» è la paradossale conseguenza dell’ex urbanizzazione, che porta alla perdita di ogni base economica propria da parte degli insediamenti rurali e alla loro trasformazione in aree residenziali della città. La campagna diventa sobborgo, periferia.

    - La stessa accentuazione del fenomeno non porta all’affermazione incontrastata dell’urbanesimo, ma ad un’inversione di tendenza culturale tratteggiata attraverso il neologismo di “rurbanizzazione”. Con ciò si intende la costituzione di nuovi stili di vita e di nuovi modelli di uso del suolo. L’intensificazione degli scambi di valori, modelli e culture tra città e campagna fa sì che, mentre nella campagna si adottano i modelli cognitivi della vita della città, nelle aree urbane si reintroducono pezzi di cultura rurale, con una maggiore attenzione per le aree «verdi», nuovi modelli di edilizia residenziale ispirati alla vita rurale e più recentemente alle prospettive dell’attività e della cultura agricola in seno alle aree centrali delle città.

    La crescita del movimento globale, politico ed architettonico, a sostegno dell’”agricoltura urbana” è  infatti la più chiara illustrazione di questa riconciliazione culturale tra città e campagna che accomuna Nord e Sud del mondo. Agricoltura urbana, nella definizione della Food and Agricultural Organization delle Nazioni Unite  è  “industria che produce, trasforma e distribuisce cibo ed energia, in buona parte in risposta alla domanda quotidiana dei consumatori in una città o metropoli, su terra e acqua diffusa nell’area urbana e peri-urbana, impiegando metodi di produzione intensiva, utilizzando e riciclando  risorse naturali e rifiuti urbani per nutrire una varietà di animali e piante”.  Ma non è solo destinata a produrre ulteriori risorse alimentari vicino ai luoghi di vendita, quindi una fonte di possibili profitti che interessa i giganti dell’industria alimentare; è strumento per risanare l’ambiente urbano consentendo maggiore assorbimento di CO2 e polverini fini, riduzione del rumore, riuso di terreni vuoti di cui si evita la contaminazione; per migliorare controllo e sicurezza alimentare riducendo nel contempo il consumo di energia per il trasporto degli alimenti; per cambiare il paesaggio urbano introducendo varietà di vedute significative di ambienti tradizionalmente esterni alla città, mentre offre nuove attività per il tempo libero, opportunità educative e di incontro.  Al di là dei sempre più numerosi segni architetturali attribuibili al singolo progettista, la dimensione collettiva dell’uso è infatti spesso esaltata nelle esperienze europee, che prendano la forma delle coltivazioni condominiali sui tetti, degli orti sociali, delle aree pubbliche di raccolta e di didattica della coltivazione.

    Intensiva e non controllata l’ex-urbanizzazione in molte città del mondo, megacittà o città minori, porta alla costituzione di varie aree di “sprawl city”. Il termine è spesso tradotto in italiano con quello di “città diffusa”. Una traduzione poco soddisfacente poiché il termine inglese è ben più denso di significati. “To sprawl” significa, oltre che estendersi, anche sdraiarsi, sparapanzarsi. William Draper usa per primo l’accezione di sprawl city nel 1937, appunto per sostenere il progetto di affermazione del city planning come disciplina necessaria a contrastare gli effetti nefasti dell’espansione disordinata delle città americane del Sud-Est nelle quali si trovava a lavorare. Tale forma di diffusione urbana (forse il termine di dispersione è giù più adeguato ad evocarla) si verifica negli Stati Uniti dagli anni Trenta, ben prima di affermarsi, con modalità e intensità tuttavia diverse, in molte città del mondo, sviluppato o in via di sviluppo. E’ il momento della storia urbana descritto da Mumford ne La cultura delle città (1938) quando evoca la fuga dalla metropoli verso le periferie nelle città occidentali, prima della seconda guerra mondiale: insiste sul declino della vita civica nei villaggi  inglobati dalle escrescenze urbane legandolo all’affermarsi di una cultura nuova, quella di “Suburbia”, per cui “gli abitanti delle zone rurali sono educati a disprezzare la loro storia locale” (2007,220).

    A seconda dei contesti territoriali preesistenti tale ex-urbanizzazione massiccia, legata spesso al potenziamento dei sistemi di trasporto pubblico e all’accesso universale all’utilizzo dei mezzi motorizzati individuali di trasporto, o semplice espressione dell’inurbamento di massa negli slum, assume forme diverse, ma anche caratteri uniformi alla base di denunce ricorrenti similmente fondate.

    L’idea è quella dell’esistenza di qualche effetto-soglia per cui in qualche fase della storia dei territori la diffusione diventi vera e propria dispersione, rendendone illeggibile la struttura, e la città appaia nelle sue ampie frange come insieme di edifici privo di identità riconoscibile e non riconducibile alla centralità preesistente della città storica. Un insieme nel quale sparisce lo spazio pubblico e si indebolisce l'"urbanesimo".


    - Suburbanizzazione, rurbanizzazione si riferiscono, per segnalare i contrasti avvenuti,  ad una nozione fondativa  della sociologia urbana, quella di “urbanesimo”, efficacemente codificata da Louis Wirth nel 1928, in un breve saggio intitolato “Urbanesimo come modo di vita”, ma che sottende tutta l’analisi classica della città. La tesi che, al di là delle differenze di approccio teorico, accomuna i fondatori della disciplina quando leggono la modernizzazione nelle trasformazioni territoriali, è quella di una rottura delle strutture sociali tradizionali consentita proprio dalla fuga in città che porta all’affermazione di una nuova cultura “urbana”, di cui individuano diversamente i fattori ma che convergono nel sottolinearne la capacità rivoluzionaria.  Citiamo ad esempio l’interpretazione dell’”urbanesimo” in Weber, nella sua attenzione per le dimensioni organizzative e politiche,  quando elabora il tipo ideale di «comune cittadino», una interpretazione che, come vedremo torna a costituire un riferimento importante nell’analisi delle città come arene politiche. Enfatizzare tale dimensione politica dell’urbano significa difatti tornare ad una interpretazione più ricca e classica della disciplina.

    Al di là delle diversità di impostazione, se vi è comune denominatore nell’analisi sociologica classica della città moderna, preannunciata secondo Weber dal comune medievale, esso risiede comunque nei concetti di complessità sociale e creatività normativa. Wirth, meglio di altri, è riuscito qualche decennio più tardi a sintetizzare una definizione di urbanesimo diventata luogo comune della sociologia dei territori: la città è un «insediamento relativamente grande, denso e permanente di individui socialmente eterogenei» [Wirth 1938]. Il numero stesso degli abitanti, in questa prospettiva, ha per conseguenza la segmentazione delle relazioni umane; l’intensità forzata dei contatti fisici nella residenza e nel lavoro si accompagna alla predominanza della comunicazione indiretta. L’eterogeneità porta, insiste Wirth secondo la tradizione della Scuola Ecologica di Chicago, a segregazione socio-spaziale, mentre alla solidarietà della comunità rurale subentra la competizione, ma anche l’integrazione tramite la routine e il controllo formalizzato tipico dell’insieme urbano.

    Contrariamente alla nozione di urbanizzazione, che vuole denotare un semplice mutamento quantitativo, quella di urbanesimo si rifà quindi ad una trasformazione che coinvolge esclusivamente l’area dei valori, degli atteggiamenti e dei comportamenti, inscrivendosi nel vasto armamentario concettuale utilizzato dai teorici della modernizzazione. L’essere «urbani» accomuna per caratteristiche fisiche, sociali, politiche e culturali, per tratti forti e definitori, insediamenti umani che sotto altri profili sono molto diversi fra loro. L’analisi socio-territoriale deve partire da queste caratteristiche anche laddove voglia insistere su elementi di rottura di vecchi equilibri e vecchie gerarchie territoriali.


    Laddove si ragioni al livello del globo e sui tempi relativamente più lunghi, tra i processi oggi dominanti vediamo all’ex-urbanizzazione associarsi una sostanziale e accelerata concentrazione, delle popolazioni e di alcune attività. Per molti, si tratta invero di una «seconda rivoluzione urbana», di un processo di importanza sociale paragonabile a quello che diede luogo alla rivoluzione urbana del terzo millennio a.C. Se le città infatti fino a due secoli fa costituivano le espressioni più alte delle singole civiltà, la maggioranza delle popolazioni fino a poco fa viveva al di fuori di esse, nelle campagne. Nel XIX secolo appena il 10% della popolazione mondiale abitava in città. L’urbanizzazione si accentua nel XX secolo, specie dagli anni Cinquanta, prima nei paesi industrializzati, poi nei paesi in via di sviluppo, effetto sia della crescita della popolazione che dello spostamento di masse ingenti di popolazioni dalla campagna verso la città. È così che nel 1975 già il 35% della popolazione mondiale vive in aree definite urbane, e che alla fine del secondo millennio la metà della popolazione del globo è fatta di cittadini. Il fenomeno tuttavia si esplica con intensità diverse nelle varie regioni del mondo, e vi produce configurazioni territoriali ed assume significati sociali assai diversi, che saranno esaminati successivamente.


    3. La mega-città protagonista di un'urbanizzazione a molte velocità

    Laddove si ragioni al livello del globo e sui tempi lunghi, tra i processi dominanti vediamo all’ex-urbanizzazione associarsi una sostanziale e accelerata concentrazione, delle popolazioni e di alcune attività. Per molti, si tratta invero di una «seconda rivoluzione urbana», di un processo di importanza sociale paragonabile a quello che diede luogo alla rivoluzione urbana del terzo millennio a.C. Se le città infatti fino a due secoli fa costituivano le espressioni più alte delle singole civiltà, la maggioranza delle popolazioni fino a poco fa viveva al di fuori di esse, nelle campagne. Nel XIX secolo appena il 10% della popolazione mondiale abitava in città. L’urbanizzazione si accentua nel XX secolo, specie dagli anni Cinquanta, prima nei paesi industrializzati, poi nei paesi in via di sviluppo, effetto sia della crescita della popolazione che dello spostamento di masse ingenti di popolazioni dalla campagna verso la città. È così che nel 1975 già il 35% della popolazione mondiale vive in aree definite urbane, e che alla fine del secondo millennio la metà della popolazione del globo è fatta di cittadini.

    E' ormai luogo comune ricordare che metà della popolazione del globo vive in città. Tale media nasconde tuttavia situazioni molto diverse e a questo "tipping point" le diverse regioni del mondo non sono tutte pervenute, o ci pervennero in momenti assai diversi della looro storia.

    Fig. 1.3 Il tasso di urbanizzazione per continente



    tippingpoint

    Questi tre miliardi e seicentomila cittadini si concentrano in buona parte in mega-città, vale a dire in agglomerazioni urbane con più di 10 milioni di abitanti.

    Fig.1.4 Città e megacittà del mondo, 2015



    La più tradizionale regolare analisi, quella delle Nazioni Unite, che rimanda per principio alle diverse definizioni e delimitazioni nazionali degli ambienti “urbani”, propone nel 2011 una lista di 23 megacittà (United Nations 2012), tra le quali i paesi dell'Unione Europea erano rappresentati dalla sola Parigi.

    Fig. 1.5. Le mega-città del mondo (2011, in milioni di abitanti )


    1

    Japan

    Tokyo

    37,22

    2

    India

    Delhi

    22,65

    3

    Mexico

    Ciudad de México (Mexico City)

    20,45

    4

    United States of America

    New York-Newark

    20,35

    5

    China

    Shanghai

    20,21

    6

    Brazil

    São Paulo

    19,92

    7

    India

    Mumbai (Bombay)

    19,74

    8

    China

    Beijing

    15,59

    9

    Bangladesh

    Dhaka

    15,39

    10

    India

    Kolkata (Calcutta)

    14,40

    11

    Pakistan

    Karachi

    13,88

    12

    Argentina

    Buenos Aires

    13,53

    13

    United States of America

    Los Angeles-Long Beach-Santa Ana

    13,40

    14

    Brazil

    Rio de Janeiro

    11,96

    15

    Philippines

    Manila

    11,86

    16

    Russian Federation

    Moskva (Moscow)

    11,62

    17

    Japan

    Osaka-Kobe

    11,49

    18

    Turkey

    Istanbul

    11,25

    19

    Nigeria

    Lagos

    11,22

    20

    Egypt

    Al-Qahirah (Cairo)

    11,17

    21

    China

    Guangzhou, Guangdong

    10,85

    22

    China

    Shenzhen

    10,63

    23

    France

    Paris

    10,62


    Il quadro proposto dagli organismi di ricerca è tuttavia soggetto a leggere variazioni. L'aggiornamento più recente di Demographia, che è fondato in parte sulle proiezioni delle Nazioni Unite, ma che usa una combinazione di criteri di delimitazione più complessa, suggerisce così l’esistenza di un numero ben maggiore di megacittà, diversamente ordinate.


    Per la loro rapidità, la loro variabilità, la loro incoerenza con i tracciati amministrativi classici, il peso del fenomeno in paesi dall’apparato statistico pubblico debole, tali mutamenti territoriali sono infatti difficili da descrivere. 

    Il tasso di crescita della popolazione urbana mondiale sta oggi decelerando. Tra il 1950 e il 2011 secondo le Nazioni Unite crebbe mediamente del 2,6% all’anno, ciò che consentì alla popolazione urbana mondiale di passare da 0,75 a 3,6 miliardi. Per il periodo 2011-2030 la stessa direzione degli Affari economici e sociali delle Nazioni Unite prevede una crescita media annuale dello 1,7%, il che corrisponde sempre tuttavia ad raddoppiamento della popolazione urbana mondiale in 41 anni; e per il periodo successivo 2030-2050 un tasso dello 1,1%, corrispondente ad un raddoppiamento in 63 anni.

    Fig. 1.6 Prospettive di urbanizzazione 1950-2050, a secondo del livello di sviluppo nazionale (dati OCSE)



     La crescita attesa si concentrerà nelle aree urbane dei paesi oggi meno sviluppate (che passerebbe dai 2,7 miliardi odierni a 5,1 miliardi nel 2050), mentre quella delle aree oggi più sviluppate crescerà più modestamente (dal miliardo attuale a 1,1 miliardo); e  la popolazione rurale decrescerà in modo consistente nelle aree oggi meno sviluppate (da 3,1 miliardi a 2,9 miliardi di abitanti) (Ibidem).  Il quadro proposto dalle proiezioni più recenti tende tuttavia ad insistere sulle particolarità locali, le continue accelerazioni o inversioni di tendenza importanti da notare in alcune aree dell'Asia e dell'Africa.

    Non si può non interpretare tale uniforme e macroscopico fenomeno come uno degli elementi di un processo di trasformazione più ampio che investe in questo mezzo secolo un mondo sempre più interdipendente. Le aree urbane sono le protagoniste della globalizzazione; esse illustrano nel modo migliore questo insieme di processi sociali, demografici, culturali e politici, in parte guidato e in parte subito dalle classi dirigenti economiche e politiche; ciò avviene per la loro capacità di innovazione tecnologica, la loro partecipazione alla rivoluzione cognitiva, le loro risorse economico-finanziarie, le migrazioni che richiamano, la loro plurietnicità, le forme – e il livello – di espressione delle nuove domande che vi si manifestano; con i loro diversi effetti, positivi e negativi sulle opportunità di vita offerte alle popolazioni.

    Le città sono quindi anche protagoniste del dibattito internazionale sulle disuguaglianze, tra parti del mondo e tra generazioni. Da tempo l’immagine delle luci notturne elaborata ad esempio dalla NASA, usata in molte sintesi ormai classiche sulle disuguaglianze globali, è considerata, non solo come descrittiva dei centri nevralgici globali, ma diventa anche denuncia se confrontata con l’immagine relativa alla densità della popolazione planetaria che abbiamo appena osservata.

    Compariamo i grappoli illuminatissimi del Nord-Est americano con i livelli relativamente bassi di luce emessi da   una popolazione cinque volte più numerosa in India. Che cosa è più sostenibile? Che cosa è più ameno? Le città ricche d’energia dei paesi altamente industrializzati oggi sono ciò che devono diventare le altre? O formano un club esclusivo i cui membri privilegiati non vogliono o sono incapaci di aprire le porte agli altri? [UN World Urbanization Prospects 2001, 9].

    Fig.1. 7  L'atlante urbano nelle immagini della NASA


    D’altra parte, oberate da tutti i problemi della crescita, le città sono sempre più soggette a crisi drammatiche, specialmente nei paesi in via di sviluppo, ma non soltanto. Disoccupazione, degrado ambientale, carenza di servizi urbani, deterioramento delle infrastrutture e carenza di spazio, di risorse finanziarie e di alloggi adeguati vi assumono nuove dimensioni patologiche.

    La città come tale entra di conseguenza in posizione preminente nell’agenda delle politiche di sviluppo.  L’impegno delle Nazioni Unite, in collaborazione con i governi nazionali, gli enti locali, le associazioni, le imprese, i centri di ricerca  per una riqualificazione degli “insediamenti umani” è così cresciuto dalla dichiarazione di Vancouver e alla prima Agenda Habitat del 1976,  all’Agenda Habitat II definita ad Istanbul nel 1996, ad Istanbul+5 nel 2001 e alla Risoluzione detta Millennium Declaration  “Dichiarazione sulle città e gli altri insediamenti umani”, fino alla Conferenza di Habitat III tenutasi a Quito nel 2016 e onclusasi con la proposta di New Urban Agenda. Le condizioni dell’alloggio e dei servizi collegati diventano tema centrale di Habitat, che d’altra parte dà origine negli ultimi anni ad una serie di programmi di finanziamenti e di assistenza tecnica volta a migliorare le politiche di gestione delle città nei paesi in via di sviluppo, con un attenzione particolare per gli interventi di protezione dell’ambiente e di potenziamento delle infrastrutture, nonché per le pratiche di valutazione e di informazione.


    In our world, one in eight people live in slums. In total, around a billion people live in slum conditions today. This not only amounts to a rather unacceptable contemporary reality but to one whose numbers are continuously swelling. In spite of great progress in improving slums and preventing their formation– represented by a decrease from 39 per cent to 30 per cent of urban population living in slums in developing countries between 2000 and 2014 – absolute numbers continue to grow and the slum challenge remains a critical factor for the persistence of poverty in the world, excluding fellow humans and citizens from the benefits of urbanisation and from fair and equal opportunities to attain individual and collective progress and prosperity (Slum Almanac 2015-2016).  



    4. Forme contemporanee di ex-urbanizzazione

    Similmente a quanto fatto per i termini destinati a descrivere i processi di trasformazione dei territori urbani, è utile ripercorrere, per chiarezza, i termini più spesso usati nelle scienze sociali per descrivere i risultati di questi processi, le proiezioni territoriali nuove degli insediamenti. 

    Tra i termini relativi, non più ai processi, ma alle conformazioni urbane che ne scaturiscono ha ritrovato fortuna nel dibattito contemporaneo uno dei più antichi coniati per descrivere le trasformazioni degli insiemi urbani, quello di «conurbazione», proposto da Geddes all’inizio del XX secolo [1915]. Con esso si intende quell’insieme urbano nato dall’espansione di una città dotata di qualche carattere di preminenza, che porta all’assimilazione dei centri minori che la circondavano. La «conurbazione » è quindi una forma di agglomerazione urbana dotata di qualche gerarchia interna leggibile (per «agglomerazione urbana», dobbiamo invece intendere genericamente qualunque insieme denso e contiguo di insediamenti con i tratti culturali dell’urbanesimo).

    La nozione di conurbazione non è quindi dissimile dalla nozione di «area metropolitana» nella sua accezione italiana classica. Con ciò dobbiamo intendere, secondo Ardigò, «quell’unità spaziale urbana composta di una città centrale di sufficiente dimensione demografica e di aree urbanizzate gravitanti intorno alla città centrale e con questa strettamente interrelate» [Ardigò 1967]. Col termine di area o di regione «metropolitana» si sottolinea la relazione che intercorre tra i fenomeni di espansione e una struttura gerarchica del mondo urbano: con «metropoli», termine tratto dalla nomenclatura religiosa, si indica la città di riferimento, dotata di predominio politico e culturale, di un’intera area culturale. Alcune aree metropolitane sono dette policentriche; è il caso in Italia dell’area metropolitana Venezia-Verona-Padova. Con ciò si intende che sono insiemi complessi di sub-aree internamente gerarchizzate, strettamente interdipendenti, ma tra le quali è invece difficile delineare una struttura gerarchica netta. Il concetto coniato specificamente in altri contesti culturali per designare tale conformazione è quello (proposto da Gottmann) di «megalopoli», non a caso ripreso di recente per designare l’area metropolitana padana [Turri 2000]. Alcuni autori, dopo Mumford, utilizzano questo termine per designare semplicemente la città occidentale in una sua specifica fase di sviluppo, quella della crescita economica e dell’espansione fisica nei suburbi con- sentita dall’accesso di massa all’automobile e dallo sviluppo dei trasporti collettivi [Mumford 1938; 1961].  Sostituendo l’epiteto di globale a quello di metropolitana, promuovendo la nozione di «città-regione globale» [Scott 2001], sulla quale torneremo successivamente, un’ampia letteratura più recente oltre a proporre una serie di tesi sulla conformazione fisica e sociale delle grandi aree metropolitane emergenti nell’economia mondiale, sulla scia della nozione di «città globale» proposta da Saskia Sassen, inserisce con efficacia l’analisi delle dinamiche socio-territoriali interne a quella della ristrutturazione territoriale complessiva richiesta dalle nuove dinamiche economiche. Meno attenta a questi aspetti e più interessata invece alla vita quotidiana delle popolazioni, all’innovazione nella gestione e nella progettazione urbane, alle sfide culturali e politiche che pongono le grandissime agglomerazioni (con più di 10 milioni di abitanti)  è il filone di analisi che preferisce il termine di «megacittà». Nelle analisi di UNHabitat sono proposti i termini di "megaregioni", "corridori urbani" e "città-regioni" , nelle accezioni qui sotto precisate, per descrivere le tendenze dominanti di riconfigurazione dei territori urbani.

    Tipi emergemti di megacittà nelle analisi di UNHabitat



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  • Le città nell'arena economica

    Le immagini delle relazioni tra territori proposte più di recente nelle scienze umane insistono, come abbiamo visto, in contrasto con quanto avveniva vent’anni fa, sul peso e sulle funzioni di specifiche formazioni territoriali che scaturiscono dal nuovo ordine economico mondiale. Esse descrivono, a seconda della matrice analitica, il consolidamento di poche «città mondiali», “città globali” o “città regioni globali”, di reti urbane dominanti, di formazioni distrettuali, modalità diverse di ri-gerarchizzazione Le disquisizioni  sulla  diffusione  urbana non sono vanificate, ma assumono tutt’altro significato e interesse se, allargando l’orizzonte geografico e tematico, si reinseriscono nel  contesto problematico più ampio delle relazioni tra le città e l’insieme dei fenomeni economici e culturali che siamo soliti ormai riassumere sotto l’etichetta  di  globalizzazione.


    1.      Comprendere la gerarchia urbana globale

    Saskia Sassen dalla fine degli anni Ottanta caratterizza tale ri-gerarchizzazione enfatizzando l’affermarsi di poche “città globali”. La città globale sarebbe succeduta alle vecchie capitali politiche, eredi della città barocca, come città egemonica del nuovo ordine mondiale. Ecco la descrizione che ne propone:

    Una combinazione di dispersione spaziale e di integrazione globale ha creato un nuovo ruolo strategico per le maggiori città. Superando il loro ruolo storico di centri per il commercio internazionale e l’attività bancaria, queste città oggi ricoprono funzioni centrali sotto quattro ulteriori aspetti: come luoghi di potere altamente concentrato nell’organizzazione dell’economia mondiale; come localizzazioni chiave delle imprese di servizio specializzato e delle attività finanziarie; come luoghi della produzione, inclusa la produzione di innovazioni, in questi settori di punta; come mercati per i prodotti e le innovazioni prodotte [...]. Tali mutamenti nel funzionamento delle città hanno un impatto massiccio sull’attività economica internazionale e sulla forma urbana. Le città concentrano il controllo su vaste risorse, mentre la finanza e le attività di servizio specializzate hanno ristrutturato l’ordine urbano, sociale ed economico. Un nuovo tipo di città è quindi comparso. È la città globale [1991, 3-4].

    Friedmann e Wolff [1982] avevano precedentemente proposto una simile immagine dell’avvenire delle maggiori città, da essi definite «città mondiali», indicando come compito primario per le scienze sociali l’analisi dell’impatto che i mutamenti da poco in atto nelle attività stesse di queste città possono avere sulla loro struttura sociale. Il motore del cambiamento era, a loro giudizio, il settore dominante dei servizi alle imprese di alto livello, che occupava un largo numero di persone altamente qualificate – l’élite transnazionale – e uno staff ancillare di personale impiegatizio. L’élite transnazionale, in quanto classe dominante della città mondiale, la organizza in funzione dei propri stili di vita e delle proprie necessità di lavoro. Per Friedmann e Wolff, come poi per la Sassen, la polarizzazione della struttura di classe è tratto emblematico della città mondiale, segnata dal contrasto tra le condizioni economiche e gli stili di vita dell’élite transnazionale e la miseria nella quale si trova a combattere quotidianamente un terzo circa della popolazione (l’underclass permanente della città mondiale).

    Posizionare le città mondiali in una gerarchia urbana globale è così diventata preoccupazione di molti specialisti di studi urbani internazionali. Punto di riferimento basilare è ovviamente il prodotto interno lordo delle città, in relazione alla loro popolazione. Dati comparati aggiornati sono ad esempio forniti su questa base nel Brookings Global Metro Monitor. Illustrano la capacità delle grandi città di concentrare la ricchezza e le risorse produttive mondiali.

     

    Il prodotto interno lordo non è tuttavia sufficiente per comprendere perché e come si affermano alcune grandi città più di altre e quali siano le conseguenze sociali di tale fenomeno, nonché per orientare di conseguenza le politiche pubbliche. Tra le varie proposte analitiche, il World Cities Study Group and Network (GaWC) dell’Università di Loughborough  (Beaverstock et al. 1999),  che si è specializzato negli ultimi decenni nelle ricerche sul tema, distingue quattro approcci principali alla costruzione di classifiche internazionali di città: alcuni analizzano le preferenze di localizzazione e i ruoli delle corporazioni multinazionali limitando l’analisi ai paesi sviluppati  (Hall 1966, Heanan 1977), altri incentrano l’attenzione più precisamente sulle capacità e le attività decisionali di queste corporazioni nel contesto della nuova divisione internazionale del lavoro (Cohen 1981, Friedmann e Wolff 1982, Thrift 1989), altri sulla loro propensità e capacità delle città ad impegnarsi per l’internazionalizzazione, la concentrazione dei produttori di servizi (Sassen 1991, 1994), altri, infine guardano alla graduatorie dei centri finanziari internazionali (Reed 1981): lo stesso gruppo diretto da P. Taylor e J. Beaverstock nota in conclusione che tutti guardano agli attributi delle città mentre sarebbe più utile analizzare le relazioni tra membri individuali di un sistema di città (Taylor 1997); ma mentre le statistiche disponibili, anche se spesso non omogenee, sugli attributi delle città sono numerose, più difficile è il procurarsi informazioni quantitative sulle relazioni singole che in concreto assicurano ad un insieme urbano una posizione di rilievo nella rete internazionale di città dominanti.  Si utilizzano allora analisi del contenuto delle riviste di affari ed economia principali, tracciati delle migrazioni di persone altamente qualificate, della struttura geografica dei rami principali di società internazionali di servizi finanziari e legali (Beaverstock et al. 1999, Hall 2001).

    Fa oggi frequentemente da riferimento la tipologia di città proposta dallo stesso gruppo di ricerca GaWC  di Loughborough (Beaverstock et al. 1999, Taylor et al. 2001, Beaverstock et al. 2017) . Nozione chiave è quella di “alpha global cities”: sono identificate una cinquantina di Alpha cities, che siedono all’apice dell’economia globale e ospitano forti concentrazioni di funzioni ad orientamento globale come la finanza e la banca di alto livello, i servizi legali, la contabilità aziendale, il marketing e la pubblicità. Al loro interno, secondo alcuni, si possono distinguere diversi clusters a seconda della loro relativa specializzazione: sulle tecnologie high tech o fondate sulla conoscenza, oppure sulle industrie creative dei media, del tempo libero, della pubblicità ad esempio (Schoales 2006). All’interno della alpha cities, è inserita una distinzione tra le due città prominenti, Londra e New York (Alpha ++), 8 Alpha + (Beijing, Dubai, Hong Kong, Parigi, Shangai, Singapore, Sydney, Tokyo), 22 città Alpha (Milano vi appartiene), e 22 città Alpha – (tra cui Roma). Accanto alle città Alpha, una ottantina di città Beta, che collegano regini di medie dimensioni all’economia mondiale, una lista più lunga di città gamma che collegano regioni più piccole all’economia mondiale, infine di città “sufficienti”, vale a dire che dispongono di una dotazione sufficiente di servizi per non dipendere da città mondiali.   

    Richard Florida, sulla base di questa classifica, dai dati del Global Metro Monitor, della classifica Forbes  dei miliardari globali, e di dati sul venture capital, vede le dinamiche di ricostruzione delle gerarchie urbane dominate dal fenomeno del “winner take all”. Non solo le città alpha rappresentano una quota del prodotto lordo mondiale doppio rispetto alla quota della popolazione mondiale che vi abita, e vi si concentrano i super-ricchi, ma vi si dirige con intensità, e specialmente in poche città tra di loro, l’investimento nelle startup. Cinque metropoli globali attraggono quasi la metà dell’investimento in venture capital globale, per il 3,3% del prodotto lordo globale e l’1,4% della popolazione globale. In tale ultima classifica tuttavia, appaiono in buona posizione alcune città “beta” nella tipologia del GaWC.  Per Florida (2017), tale capacità di concentrazione delle risorse porta ad una “New Urban Crisis”, tendenza in contrasto con le sue precedenti ipotesi di diffusa capacità delle città di stimolare lo sviluppo locale, accogliendo la “classe creativa” mediante politiche urbane adeguate (Florida 2012).

     

     

    Tali considerazioni tendono tuttavia a non evidenziare le, forti, differenze tra regioni del mondo, che continuano ad essere evidenziate a partire dai dati sul prodotto lordo e il suo andamento.  Oltre alle differenze negli scarti tra PIL delle megacittà e PIL nazionali già evidenti nei dati già presentati, l’andamento rilevato negli ultimi anni è lontano dall’essere uniforme. Dai dati del Global Metro Monitor, la posizione delle città emergenti del continente asiatico è, ad esempio, tra il 2014 e il 2016, rapidamente cambiata; ma all’interno stesso dei diversi continenti, le traiettorie delle città appaiono estremamente diversificate.

    Un’illustrazione dei meccanismi sui quali si fonda la competitività delle città, seppur in un contesto definito, quello dell’America del Nord, è offerta da un caso eclatante largamente discusso nella stampa e nella letteratura, quello del concorso lanciato da Amazon per il suo Head Quarter 2.

    Box

    Per la localizzazione del suo secondo quartiere generale, Amazon, nel 2018 apre una competizione tra città del Nord America. Dopo una selezione in due tappe tra le numerose città che hanno formalizzato on line le loro offerte, sceglie di abbinare due localizzazioni: Queens (città di New York, Long Island Ovest) e Cristal City (Washington, Stato di Virginia). Svilupperà anche una piattaforma a Nashville. Al totale in ognuna delle due sedi si tratta di creare 25000 posti di lavoro.

    Il progetto suscita un dibattito nazionale acceso anche per l’intervento di Alexandria Ocasio-Cortez, stella nascente del partito democratico, appena eletta nel Congresso per la circoscrizione di Queens, tradizionalmente popolare. La comunità che rappresenta considera la proposta dello Stato di New York  un “oltraggio”. L’importo dei vantaggi garantiti corrisponde alle spese di manutenzione delle strade dell’intero Stato di New York per 3 anni. Le tasse dei cittadini, si considera, sono traviate per finanziare grandi imprese, mentre mancano servizi per la vita quotidiana delle famiglie che abitano l’area.

    Amazon nel febbraio del 2019 rinuncia alla localizzazione nel Queens.

    I ricercatori intervenuti nel dibattito (Farren, Cohen) hanno fatto valere alcune regolarità empiricamente verificate in sociologia economica: secondo una ricerca della Brookings Institution, ad esempio il 90% delle imprese che si è insediata con incentivi pubblici non ha scelto la localizzazione per questo motivo. Amazon con la procedura di scelta ha tra l’altro ottenuto una pubblicità indiretta, gli incentivi non sono comunque criterio di scelta predominante. A riprova, si rileva come nel caso specifico città diverse da quelle scelte avevano proposto delle condizioni migliori di quelle selezionate; che corrispondono ad un impegno finanziario ragguardevole da parte degli enti locali (2,2 miliardi di dollari a New York, in buona parte in vantaggi fiscali, quindi non “spese” vere e proprie, ma anche contributi per 573 milioni; il che corrisponde a più di 8000 dollari per posto di lavoro). La procedura della gara, si sottolinea poi, porta ad incentivi selettivi, costruiti per una sola azienda, che falsano la concorrenza e creano o si fondano su sodalizi tra amministratori ed imprese (cronyism). Che cosa cercano in realtà le imprese? manodopera locale qualificata, tessuto produttivo e di servizi preesistente che garantisce funzionamento, ambiente business friendly, buona qualità della vita. Per cui, nel caso specifico, la rinuncia rapida al progetto di Queens.

    Al di là delle specificità di contesto, il caso offre quindi una immagine sintetica dei processi globali dell’attuale ri-gerarchizzazione dei territori e delle sue conseguenze sociali. In primo luogo dell’illusoria affermazione di autonomia delle leadership cittadine, che si affrancano dalle fedeltà nazionali, nel contesto della glocalizzazione:  gli osservatori americani sottolineano come il gioco a livello federale sia a somma zero, e chiamano ad una regolamentazione federale o tassazione federale sugli incentivi locali. Della crescente concentrazione delle risorse economiche e culturali, poi: sono le grandi città ad attrarre le grandi imprese innovative. Infine del crescente dualismo sociale di queste stesse grandi città: il quartiere popolare attrae per il suo carattere pittoresco, è quartiere “autentico”, secondo la formula di Sharon Zukin  (Naked City 2010, cfr. infra). Queens, quartiere popolare, situato accanto ai quartieri borghesi dell’Est di Long Island, è collocazione perfetta per i lavoratori qualificati e i dirigenti di Amazon alla ricerca di quest’autenticità ma anche dei comodi ai quali sono abituati.

    Il rischio percepito è quello di una espulsione dei residenti e delle attività già insediate nel quartiere; si prevede un aumento rapido dei prezzi degli immobili, mentre si tende a valutare poco l’impatto possibile dell’indotto: il trasferimento porterebbe vantaggi a proprietari e a qualche servizio preesistente.  Il conservatismo della popolazione popolare esprime la forte consapevolezza delle trasformazioni del lavoro, e della struttura sociale, nelle megacittà dominanti.

    La riflessione sulle dinamiche economiche che impongono e strutturano la metropoli, dagli esordi della disciplina, oltre a tentare di discernerne le funzioni caratterizzanti, associa l’indicazione del consumo come pratica sociale determinante per il e nel capitalismo emergente, quindi come dimensione chiave per comprendere comparativamente le città. Torniamo brevemente a queste analisi classiche per situare i, diversi, approcci contemporanei alla città dei consumi.

     

    2.      Città, consumo e capitalismo: la teoria classica

    Il concetto «economico» di città proposto da Weber mentre ne elabora il più noto concetto «politico» è di norma tralasciato nell’esegesi di Die Stadt: esso è considerato come prodotto intermedio nel suo percorso di elaborazione teorica. Benché detto «economico», il concetto è però parte importante del contributo weberiano all’analisi sociologica dei sistemi urbani e apre un filone di analisi, dedicata ai comportamenti di consumo e agli stili di vita urbani, le cui fortune alterne cercheremo di tratteggiare, e che comunque non verrà più declinato con l’ampia prospettiva comparata adottata da Weber.

    La peculiare composizione di attività economiche che differenzia una città dall’altra si associa, nell’analisi di Weber, a stili di vita di cui è portatore un ceto dotato di ampie possibilità di consumo e della capacità di imporre i propri modelli comportamentali al resto della società. La «città aristocratica» medievale vive secondo lo «stile di vita cavalleresco», fondato sul rifiuto del lavoro, anche imprenditoriale (al quale sarà contrapposto l’obbligo all’impegno economico con l’affermarsi della «città plebea»). Lo stile di vita cavalleresco suscita l’emulazione dalle fasce sociali contigue definendo, avrebbe detto Bourdieu [1979], gli strumenti di «distinzione» per buona parte della popolazione, strumenti che i «forti consumatori» trasmettono ai «consumatori di massa».

    Lo stile di vita cittadino è quindi sempre in armonia con la struttura economica della città, ma mediata dalla distribuzione del prestigio. Osservando chi sono i «grandi consumatori», suggerisce Weber, si possono distinguere: a) città di consumatori, b) città di produttori, c) città di commercianti.

    a) «Città di consumatori» sono quelle città nelle quali l’economia e lo stile di vita locali dipendono innanzitutto da categorie sociali che oggi si definirebbero «inattive» (rentiers borghesi o aristocratici, lavoratori ritirati dal lavoro); a questi inattivi Weber assimila gli amministratori pubblici. Al tipo della città principato, cioè di quella in cui gli abitanti dipendono direttamente o indirettamente per le loro prospettive di guadagno dalla capacità d’acquisto della casa principesca e delle altre grandi amministrazioni, somigliano quelle città nelle quali è la capacità d’acquisto di altri forti consumatori, di coloro cioè che vivono di rendite, che decide delle probabilità di guadagno degli industriali e dei commercianti locali. Questi forti consumatori possono essere di tipo assai diverso, a seconda della specie e provenienza delle loro rendite. Possono essere: 1) funzionari che spendono in città i loro redditi legali o illegali; oppure 2) signori e potentati politici che vi consumano le loro rendite fondiarie extraurbane o altri introiti di origine particolarmente politica. In ambedue i casi la città somiglia assai al tipo di città sede di principato: essa vive di rendite patrimoniali e di proventi di natura politica costituenti la base della capacità d’acquisto dei forti consumatori (esempio di città d’impiegati: Pechino; di città di possidenti: Mosca, prima dell’abolizione della servitù della gleba) [...] Oppure i forti consumatori possono vivere di rendita, oggi specialmente frutto di azioni, e di dividendi e percentuali: la loro capacità di acquisto si basa allora specialmente su rendite finanziarie, in special modo capitalistiche (es. Arnheim), oppure si basa su pensioni statali o altre rendite dello stato (quasi una «pensionopoli», quale Wiesbaden). In tutti questi ed in numerosi altri casi simili, la città è più o meno una città di consumatori. Perché la presenza, proprio sul luogo, di quei forti consumatori, diversi fra loro dal punto di vista economico, è decisiva per le possibilità di guadagno degli industriali e dei commercianti della città [Weber 1920; trad. it. 1950, 7].

    b) Alla città di consumatori si contrappone la cosiddetta «città di produttori». Qui il benessere cittadino, la crescita demografica ed economica sono l’effetto della presenza e dello sviluppo di fabbriche, di manifatture o di «industrie casalinghe» che vendono all’esterno, anche all’estero. Esempi citati da Weber: Essen e Bochum. Queste città rappresentano, a suo giudizio, il «tipo moderno di città», poiché sono le

    città del «capitalismo moderno». Ma alla stessa tipologia corrispondono città più tradizionali, nelle quali domina l’artigianato e non ancora l’industria: è il tipo di città asiatica, antica o medievale. I consumatori per il mercato locale sono costituiti in parte dagli imprenditori che risiedono sul posto – e sono forti consumatori –, in parte, e più specialmente, dagli operai e artigiani quali consumatori di massa; infine dai commercianti e possidenti, da quelli indirettamente riforniti e che per lo più sono forti consumatori  [ibidem,  8].

    c) La «città di commercianti», infine, è quella nella quale forti consumatori possono essere commercianti che vendono al minuto prodotti stranieri sul mercato locale (come, ricorda Weber, i sarti nel Medioevo), che esportano prodotti locali (come gli esportatori di aringhe delle città della Hansa), che acquistano prodotti esteri per riesportarli altrove (nel caso delle «città di commercio di transito»), oppure combinano queste varie attività commerciali.

    Si ricorderà quanta importanza Weber attribuiva nella storia dell’Occidente e della sua avventura urbana all’esperienza della «commenda» e della societas maris dei paesi del Mediterraneo: un tractator, commerciante viaggiatore, trasportava e vendeva nei mercati del Levante prodotti locali o acquisiti sul mercato locale col capitale ricevuto (totalmente o in parte) in accomandita da capitalisti residenti nel luogo; col ricavato acquistava merci orientali che vendeva sul proprio mercato; il ricavo complessivo veniva poi diviso secondo gli accordi prestabiliti fra il tractator e il capitalista [ibidem, 8]. Alcune città moderne, rileva Weber, si riavvicinano al modello:

    Qualcosa di sostanzialmente simile avviene quando una città moderna (Londra, Parigi, Berlino) è sede di capitalisti e di grandi banche nazionali o internazionali oppure (ad es. Düsseldorf) è sede di grandi società per azioni o di cartelli [ibidem, 9].

    Sombart, riflettendo come Weber sulle origini del capitalismo moderno [1916], vede uno snodo storico-geografico nella città settecentesca. In questo eccezionale momento di sviluppo demografico ed economico delle grandi città, che consegue all’inurbamento dei grandi consumatori, si sarebbe formata proprio la città moderna nei suoi tratti perduranti, vale a dire quella città che è innanzitutto il luogo del consumo di lusso. È allora che la grande città inizia a creare opportunità del tutto nuove di vita sontuosa e spensierata: teatri, sale da ballo, alberghi di lusso diffondono dalle corti ad un pubblico relativamente ampio un ideale di vita e un modello di consumo dai tratti aristocratici. I ceti cittadini erano allora composti, dice Sombart, quasi esclusivamente da persone che volevano divertirsi, la cui preoccupazione maggiore era di spendere il proprio denaro in modo da rendere più piacevole la vita. La città favorisce quindi l’avvio e l’accelerazione del processo capitalista con nuove opportunità di profitto: l’oggetto di lusso (per lusso si intende ogni forma di rifinitura di un bene superflua dal punto di vista del soddisfacimento del bisogno a cui il bene risponde) e la sua diffusione sono anelli chiave del processo di trasformazione delle strutture produttive che allora si innesca. Nella città settecentesca ha anche inizio, suggerisce Sombart, il processo di standardizzazione della condotta di vita che verrà a lungo considerato come tipico della metropoli. Alla diffusione strettamente privata del lusso iniziano a subentrare forme collettive di manifestazione del lusso stesso [Sombart 1916; trad. it. 1967, 220-223].

    La città contribuisce ad aumentare le esigenze del lusso. […] per lo sviluppo del lusso è importante la città, soprattutto perché crea nuove possibilità di vita allegra ed esuberante e, pertanto, nuove forme di lusso. Le feste non rimangono circoscritte ai palazzi dei principi, ma si estendono ad altri ambiti sociali, che provano l’esigenza di locali di divertimento […] il lusso privato viene a essere sostituito dal lusso collettivo (Ibidem).

     

    3.      Consumi e dualismo urbano


     ■ La sociologia dei consumi, nella sua prima fase di affermazione accademica,  tende all’interesse di Weber e di Sombart per i consumi come elementi di differenziazione,  a sostituire una prospettiva, riconducibile a Veblen, che considera invece il consumismo un fenomeno culturale capace di travalicare le frontiere delle classi o degli strati sociali e nega che possa rivestire forme diverse e specifiche a seconda del capitale personale dell’individuo, economico e sociale [Otnes 1988; Warde 1990]. Diversa è la prospettiva dominante in sociologia urbana nella quale predomina la denuncia della capacità riproduttiva delle disuguaglianze sociali dello stesso consumismo.

    Qualche anno prima del rilancio della sociologia dei consumi sulla scena europea, la sociologia urbana si era riavvicinata infatti al tema dei consumi, con la proposta marxista, formulata in particolare da Castells, di uscire dalla crisi della sociologia urbana assimilando il suo campo a quello dei consumi collettivi [Castells 1977]. La società urbana, nell’analisi di Castells, è il luogo della riproduzione della forza lavoro più che della produzione. La funzione di consumo vi domina, rispetto a quelle della produzione e della gestione. Nel consumo differenziato dei beni collettivi (in particolare nel funzionamento e nell’accesso delle varie categorie sociali ai servizi urbani) si esprimono nitide le disuguaglianze generate dal capitalismo avanzato; ed è per l’accesso a questi beni (trasporti pubblici, scuole, alloggi popolari) che un nuovo proletariato può sviluppare le nuove «lotte urbane».

    ■ Rielaborando la tesi secondo la quale i sistemi urbani vanno interpretati come configurazioni di cleavages di consumo, Saunders, in polemica con Castells, affida anch’egli alla sociologia urbana un nuovo campo e nuovi strumenti. Le ipotesi sono la separazione crescente, nel mondo contemporaneo, tra sfera della produzione e sfera del consumo; la decadenza di categorie sociologiche come quelle di relazioni economiche capitaliste e di classe sociale; la dimensione essenzialmente politica del consumo, atto a suscitare crescente mobilitazione in quanto sfera nella quale interviene l’ente pubblico [Saunders 1986]. I cleavages di consumo seguono la linea di frattura tra settore della produzione collettivizzata e settore della produzione privata di beni e servizi. Il settore dell’alloggio riveste un ruolo emblematico. La proprietà dell’alloggio è vettore di ricchezza, e di trasmissione intergenerazionale della ricchezza. Ma è anche «espressione di identità personale e fonte di sicurezza ontologica» [ibidem, 203], poiché riguarda quella che «per molti è la risorsa centrale della vita quotidiana – la casa» [Saunders-Williams 1988, 86]. La dicotomia proprietari-non proprietari viene estesa ad altre categorie di beni (automobile, assicurazioni, pensioni) e sta alla base di un cleavage sociale determinante tra chi può acquistare e chi è in balia dell’intervento dello stato. La polarizzazione sociale cresce come effetto della divaricazione dei modi di consumo.

    Il livello del sistema urbano riveste poi un’importanza cruciale ma ambigua. Il segmento locale del sistema politico è il luogo del consumo, ma anche dell’incontro immediato tra acquirente o cliente e rappresentante politico. È a questo livello, laddove il settore pubblico sia affiancato da un settore privato, che si può esercitare il potere di decidere se utilizzare o meno le strutture pubbliche fornitrici di servizi; anche se in molti campi di intervento non è del tutto ovvio che per il settore privato vi sia la possibilità di esistere senza un sostegno dei poteri locali e dello stato centrale.

    Negli anni Settanta la sociologia del consumo enfatizzava eccessivamente, secondo Saunders, la dimensione del conflitto urbano. Nell’interpretazione di Castells, le tensioni che emergono dalla stessa polarizzazione sociale denunciata da Saunders proiettano la società locale in un mondo di conflitto globale tra capitale e proletariato. Il «conflitto urbano», rivolta dei cittadini ai quali lo stato non offre beni e servizi adeguati, ha una portata rivoluzionaria, poiché sviluppa la consapevolezza delle contraddizioni del capitalismo, e in quanto tale supera i confini locali. Egli afferma che «l’intervento statale nella città, mentre tenta di superare le contraddizioni che risultano dall’incapacità di produrre d’urgenza beni e servizi, di fatto politicizza e globalizza i conflitti urbani articolando direttamente le condizioni materiali della vita quotidiana e il contenuto di classe delle politiche pubbliche» [Castells 1978, 170]. Anche per Saunders, i cleavages politici emergono laddove vi sia un alto grado di frammentazione tra modi di consumo privati-individualizzati e pubblici-collettivi. Egli suggerisce tuttavia che l’insoddisfazione verso l’offerta di servizi pubblici, anche se porta ad impegnarsi in un movimento di protesta, non sempre può essere interpretata come tappa di un conflitto mondiale in fieri. Tra le episodiche «lotte» per l’accesso ai servizi, la protesta elettorale, l’allontamento dalla politica (che trasforma la rinuncia all’offerta pubblica in rinuncia a far sentire la propria voice nei luoghi deputati del sistema politico in exit), le modalità con le quali la pauperizzazione e la conflittualità diffusa trasformano le relazioni tra i cittadini e il sistema politico sono numerose, e premono comunque verso la conferma della dimensione locale della politica.

     ■ La questione dei collegamenti tra i conflitti urbani locali, determinati dalle difficoltà di accesso ai servizi e alla stessa città, e le trasformazioni globali viene riproposto da David Harvey in Rebel Cities [2012], in un’analisi più vicina a quella di Castells, classicamente marxista, per la quale la distinzione pubblico-privato perde la sua pregnanza, e che propone tuttavia una interessante riflessione sulla composizione delle due classi, borghesia e proletariato, e sulle più recenti forme di mobilitazione, come Occupy Wall Street.  Negli Stati Uniti, la formazione nel secondo dopoguerra di un largo segmento della classe operaia proprietario della propria abitazione ha consentito, secondo Harvey, non soltanto di rivitalizzare l’economia tramite edilizia ed urbanizzazione, ma anche di controllare gli stili di vita, i valori politici, la visione del mondo, dei lavoratori. L’urbanizzazione neo-liberale in molti paesi occidentali ha similmente portato ad enfatizzare il consumo come elemento distintivo di un’élite limitata, e spostato un’ampia maggioranza della popolazione, indebitata quindi impoverita, nelle aree esterne delle città. Motivi per cui la città e il processo urbano che produce diventano i siti principali delle lotte politiche, sociali e di classe, lotte che, superando la dimensione locale dovrebbero costituire secondo Harvey la base di network sempre più complessi ed estesi volti a riappropriarsi del “diritto alla città”.

    ■Il tema del dualismo urbano è anche al cuore del filone di ricerche maggiormente interessato all’analisi delle culture urbane, vale a dire dei valori che orientano i comportamenti quotidiani all’interno delle grandi città.  Si osserva qui che il significato degli “stili di vita urbani” è oggi cambiato. Mentre a Weber erano potuti apparire prerogativa piuttosto stabile dello status sociale, oggi illustrano piuttosto un aggressivo benché illusorio inseguimento del capitale culturale (Bourdieu 1984); per gli individui, donne e uomini, tale inseguimento incoraggia diverse forme di consumo culturale. Per le città, stimola la crescita sia delle industrie culturali for-profit e delle istituzioni culturali no-profit. Tali cambiamenti corrispondono a vari mutamenti strutturali: l’emergere del post-modernismo – come forma d’arte, modo di produzione post-industriale e portatore di meccanismi di costruzione delle identità;  la crescita del settore dei servizi; e l’arrivo alla matura età della generazione del baby-boom, il cui peso demografico e l’aspettativa generalmente alta di amenità ha enfatizzato la domanda di consumi di beni di qualità e distintivi. L’attenzione agli stili di vita urbani riflette anche altri mutamenti. Come gli immigrati, le minoranze razziali ed etniche e gay e lesbiche sono diventati attori più visibili sia negli spazi pubblici che nelle attività culturali, hanno reso più visibili una varietà di modi di vita “alternativi”, specialmente nelle grandi città dove sono concentrati” (Zukin 1998, p. 825).

    L’attenzione agli stili di vita, come elemento di caratterizzazione del paesaggio urbano e come componente importante di costruzione identitaria, non solo, afferma Zukin in Landscapes of Power [1991], sposta il desiderio di consumi verso i prodotti culturali, ma sviluppa nuove forme di attaccamento ai luoghi. Sotto la “distruzione creatrice” delle industrie culturali, diversità e standardizzazione vanno di pari passo. L’economia di mercato tende a staccare gli individui dalle istituzioni sociali e a rinforzare il loro attaccamento ai luoghi, luoghi sempre più definiti da un’architettura sempre meno distintiva e da un’offerta che ripropone un’interpretazione globale del vernacolare.

     In Naked City [2010], a partire dall’osservazione delle trasformazioni dei quartieri di New York, Zukin mostra come nei decenni più recenti la ricerca dell’autenticità diventi il principio ordinatore dello sviluppo urbano, uno sviluppo guidato dalla grande impresa. L’autenticità come ideale urbano, concetto élitista, fondato sul consumo, acquista la capacità, perché esprime un  potere, di riorganizzare la città. Il processo chiave è la gentrification,  guidata ora dalla ricerca dell’autentico, che coinvolge due popolazioni: chi è e chi vede l’autentico. Chi vede ha sufficiente mobilità e distanza per discernere dove è l’autentico, ma anche per ricercarlo. I gentrifiers consumano l’esperienza del vivere nel quartiere povero nel quale si trasferiscono, mentre chi vi vive da tempo, semplicemente lo abitano.  Nella Naked City, la storia può essere riletta come il conflitto tra “la città delle corporazioni” e “il villaggio urbano”.  I quartieri tradizionali del centro città hanno oggi difficoltà a mantenere la loro struttura, quindi la loro organizzazione sociale: la ricerca dell’autenticità, che guida un’élite, si impone sui tradizionali valori e comportamenti locali, banalizza distruggendo rapidamente la diversità. L’avanzare della speculazione per la realizzazione di quartieri detti storici e caratteristici trova debole contrappeso nel contemporaneo proliferare di enclave nuove di stili di vita alternativi, più spesso etnici, in genere nelle aree periferiche o di nuova (ed incompiuta) espansione urbana.  Tale appare secondo Zukin il fondamentale dualismo sociale determinato dagli stili di consumo, in assenza di politiche pubbliche che portino a contrastare questa particolare forma di mercificazione della città.

     


    4.  Dualismo e “globalismo” urbano


    Il transmigrante, abitante del quartiere “etnico” o membro dell’élite alla ricerca dell’autenticità, è così attore fondamentale della costruzione del paesaggio della megacittà. "I migranti stessi sono a loro volta causa di altri flussi che attraversano il pianeta e che vanno ad incidere nella vita economica, politica e culturale di tutte le società che ne sono investite. […] Oggi la migrazione non implica più, necessariamente, [una] rottura radicale” (Cesareo 2015, 70). La diffusione e l’accessibilità dei mezzi di trasporto internazionali, la disponibilità di mezzi di comunicazione istantanea a basso costo, consentono una interazione quotidiana tra chi è emigrato e chi è rimasto nel suo luogo di origine. Abbiamo visto come fino agli anni 1980 la percezione dell'immigrato e gli strumenti elaborati dalle scienze sociali per analizzare le situazioni migratorie rispecchiano in genere la posizione socialmente debole dei lavoratori immigrati. Progressivamente tuttavia, l'osservazione della "fuga dei cervelli", l'attenzione per il momento ed i meccanismi dell'emigrazione, vengono, come abbiamo visto, ad arricchire la prospettiva.

     Nei suoi studi pionieristici, Abdelmalek Sayad alla fine degli anni Settanta insiste sulla necessità di riflettere in sociologia, non solo sulle relazioni del migrante col nuovo contesto di vita, ma sul significato dell'emigrazione per la società di origine e per l'immigrato stesso. Analizza i legami tra l’immigrato algerino in Francia, la società di partenza, la società di arrivo, e propone il modello analitico della "duplice assenza". Pensare il fenomeno migratorio, egli sottolinea, significa pensare, non soltanto la presenza nella società di arrivo, ma anche l'assenza dalla società di partenza. L'emigrazione è perdita per la società di origine, una perdita non provvisoria. D’altra parte l’immigrato non si percepisce né come “di qui” né come “di laggiù”.  È doppiamente escluso. L’emigrazione porta lacerazione sotto i profili sociale, politico, spirituale.  Su tutto il percorso di inserimento personale, poi familiare, pesa lo strappo iniziale e la percezione della lontananza.

    Abbiamo visto come gli studi sociologici delle migrazioni orientati alla prospettiva “transnazionale”, dagli anni Novanta, invertano l’interpretazione: al modello della doppia assenza si sostituisce un modello della doppia presenza.  Il transmigrante è “figura caratterizzata dalla partecipazione simultanea ad entrambi i poli del movimento migratorio” (Ambrosini 2007, 43). Il migrante non è solo agente, sul quale pesano i determinismi , in particolare legati alla situazione di partenza, ma è anche attore dalle capacità strategiche affinate dalla complessità delle decisioni che deve prendere.  Ciò, ovviamente, in misura variabile a seconda delle sue risorse economiche, culturali, sociali e di personalità. La presenza nella società d’origine varia anche a seconda della durata della presenza, si affievolisce nelle seconde generazioni (Portes e Guarnizo 1999), caratterizza specialmente alcune diaspore o alcuni percorsi migratori storici. La migrazione, d’altra parte, è troppo spesso drammaticamente costretta e lacerante perché rispondere al modello della doppia presenza. Per questi motivi, il contributo empirico dell’approccio  transnazionale alla conoscenza dei fenomeni migratori viene spesso ridimensionato. Ponendo l’accento sugli attori individuali della globalizzazione, e sulla globalizzazione culturale dal basso, ha tuttavia suscitato un fruttuoso dialogo interdisciplinare che ha stimolato un rinnovamento della riflessione sociologica sui processi di globalizzazione nelle sue relazioni con la struttura sociale delle società, e in particolare, delle città nelle quali si concentrano i processi di immigrazione.

    Tali processi economici e culturali di integrazione globale confermano le tendenze ad un ridimensionamento della strutturazione in classi sociali, attribuite da alcuni all’allentamento delle relazioni di autorità caratteristiche delle strutture organizzative della grande industria, da altri all’affermarsi di stili di vita postmoderni portatori di identità fluide, postfordismo, da altri alla postmodernità?

    Secondo Saskia Sassen essi invece portano al consolidamento di classi denazionalizzate, caratterizzate non soltanto dall’accesso differenziato alle risorse, ma dalle culture e delle pratiche degli attori che la compongono.

    Il sistema economico globale offre un contesto strategico ampliato per sviluppare il potere personale e di gruppo.” La struttura pertanto è mediata da pratiche e culture Una classe denazionalizzata emerge da entrambi i tipi di processi cioè insieme di gruppi strategicamente intenzionati a cogliere le opportunità create dal funzionamento del sistema globale, essendo però nello stesso tempo limitati dai sistemi nazionali (Sassen 2008, 165).

    Lo stato transnazionale di professionisti e dirigenti suscita al cambiar del millennio una serie di indagini empiriche (Pijl 1998, Sklair 2001, Robinson 2004). S. Sassen individua almeno due altre classi “globali o parzialmente denazionalizzate”. La prima è quella dei funzionari statali che convergono in reti transnazionali. Si tratta di esperti in materie fondamentali nella geopolitica dell’economia globale: giudici, funzionari dell’immigrazione, funzionari di polizia. La seconda è quella “dei lavoratori e degli attivisti politici con scarse risorse, che comprende settori importanti della società civile globale, reti diasporiche, comunità e famiglie di immigrati transnazionali”.

    L’autrice insiste sul fatto che il “globalismo” di queste nuove classi non corrisponda a vero e proprio “cosmopolitismo”. Al di là dell’uniformità di stili di vita che lo potrebbe evocare, ciascuna di queste classi rimane radicata in ambienti localizzabili (centri finanziari, governi nazionali, microstrutture della vita quotidiana o della lotta politica) e segue logiche specifiche esterne allo spirito del cosmopolitismo: ricerca del profitto, questioni di governo, conflitti locali determinano principalmente le loro scelte. Seppur non cosmopolite, “si può pensare che gettino un ponte tra un ambiente densamente nazionale, nell’ambito del quale la maggior parte della vita politica, economica e cittadina continua a svolgersi, e le dinamiche globali che “denazionalizzano” componenti particolari di tali scenari nazionali” (Sassen 2008, 166).


  • Le città nell'arena politica

    Riferimenti ulteriori si trovano nelle slide delle conferenze Heinelt:  https://e-l.unifi.it/pluginfile.php/849905/course/section/108957/Local%20government%20systems_Madrid.ppt?time=1571821497399

    Negli ultimi decenni gli studi sulle trasformazioni della democrazia e delle politiche locali si sono fortemente sviluppati. Ciò è avvenuto anche nei paesi europei che, per la loro tradizione centralista, consideravano l’arena locale come area residuale dell’analisi politica. Tali studi hanno l’obiettivo di verificare i risultati delle profonde riforme che hanno investito i comuni, come veri e propri «laboratori» istituzionali, ma anche di descrivere le nuove modalità dell’azione pubblica che si delineano a questo livello di governo. In molti casi si tratta anche di descrivere e denunciare le conseguenze del mutamento di modello interpretativo della democrazia al quale le policies locali danno concretezza.  I problemi, gli approcci, i modelli attorno a cui si sviluppa il dibattito internazionale sulle trasformazioni della democrazia locale e sulle modalità di definizione delle politiche urbane sono variegati quanto le tradizioni nazionali di ricerca in sociologia politica. Ad illustrazione dell'impatto dei mutamenti appena evocati sulle modalità dell'azione pubblica, si approfondisce il caso delle pratiche di pianificazione territoriale, momento chiave del governo delle trasformazioni e della promozione della qualità di vita nelle grandi città. 

     

    1.     Decentramento e "multi-level governance"            

     

    1.1 Quanto contano enti e amministratori locali?

    Sebbene la nozione di «locale» venga talvolta estesa a tutte le istituzioni politiche e amministrative non centrali (quindi anche alle regioni), in genere il termine «ente locale» nel mondo occidentale designa quel primo livello territoriale di rappresentanza politica e di organizzazione amministrativa non specialistica assimilabile al comune, il livello di cui tratteremo in questo capitolo. Comuni, municipalità, città: questi sono i riferimenti lessicali ai quali corrisponde nella realtà italiana. .

    La questione del peso del governo locale nel sistema politico ha a lungo mobilitato l’attenzione scientifica, in particolare nei paesi con una tradizione centralista. Con il decentramento quasi rivoluzionario avvenuto in questi paesi, con l’assunzione al livello comunitario del principio di sussidiarietà e di indirizzi di programmazione fondati sullo «sviluppo dal basso», con la diffusa convinzione dell’inarrestabile risveglio dei localismi, l’interesse si è oggi spostato dal «quanto» al «come» conta il governo locale. Il problema del «quanto», tuttavia, non è superato.

    Box 1.

     Sussidiarietà

     La sussidiarietà è assunta come principio normativo di organizzazione verticale del sistema politico europeo nel Trattato di Maastricht, all’articolo 5, in quel caso in riferimento alle relazioni tra stato nazionale e organi dell’Unione: «Nei settori che non sono di sua esclusiva competenza la Comunità interviene, secondo il principio di sussidiarietà, soltanto e nella misura in cui gli obiettivi dell’azione prevista non possono essere realizzati dagli stati membri e possono dunque, a motivo delle dimensioni e degli effetti dell’azione in questione, essere realizzati meglio a livello comunitario».
     
    A tal principio ci si riferisce oggi nei documenti pubblici europei, ma anche nazionali, per ridefinire le relazioni tra altri livelli di governo, in particolare tra enti locali e governi centrali (ad esempio dall’ottobre 2001 nell’art. 118 della Costituzione italiana).La prospettiva rompe quindi con il quadro analitico tradizionale fondato sulle nozioni di decentramento amministrativo o di decentramento politico (o i loro equivalenti semantici di deconcentrazione o devoluzione); la terminologia consacra il processo di consolidamento del segmento locale dei sistemi politici, pur riservando, come si potrà notare, all’ente di livello territoriale superiore la capacità di definire le relative possibilità di «realizzare» con successo gli obiettivi dell’azione pubblica.
     
    A tale nozione «verticale» di sussidiarietà, negli stessi documenti pubblici, si associa sovente un’accezione «orizzontale» nella quale l’intervento dell’ente pubblico viene concepito (quindi ridimensionato) come suppletivo o correttivo dell’attività e dell’auto-organizzazione delle famiglie, delle associazioni e delle imprese.

    Qual è, nel quadro della ristrutturazione statale e della globalizzazione economica, la capacità dei governi locali di influenzare in concreto la condizione dei cittadini? Più precisamente: può un municipio con maggiori poteri incentivare la partecipazione (elettorale e non solo) dei cittadini alla vita politica e sociale? Può una classe politica locale investita di maggiori competenze essere più rappresentativa degli interessi della popolazione e più responsabile del proprio operato nei confronti degli elettori? Può un governo locale nell’era della globalizzazione economica agire efficacemente, con risorse ridotte, per il benessere dei suoi cittadini? L’influenza delle scelte organizzative e politiche ispirate agli ideali liberisti sul peso complessivo dei governi locali nella società è sottolineata da prospettive assai diverse. La restrizione delle capacità di intervento a livello locale in conseguenza delle riforme dei sistemi previdenziali e di assistenza era già stata illustrata nella vasta letteratura americana sulla fiscal crisis delle grandi città, che negli anni Ottanta ha ispirato anche alcuni studi europei. Vi si evidenziava l’incapacità dei governi urbani di fornire servizi sociali decorosi ed efficienti ai propri cittadini, avanzando l’idea che soltanto un governo centrale fosse in grado di gestire le risorse economiche e politiche necessarie ad attuare politiche redistributive funzionanti.

    Tuttavia queste voci sono piuttosto isolate. Sia a livello di istituzioni sovranazionali  ( sia le Nazioni Unite che la Commisisone Europea fondano ad esempio le strategie di sviluppo locale e di riequilibrio territoriale proprio sulla mobilitazione delle risorse locali attuata dai governi locali), sia a livello di letteratura critica si ritiene che il governo locale, anche nel contesto attuale, possa e debba contribuire al benessere e alla crescita democratica delle popolazioni. Anche nel contesto di riduzione della spesa e delle prestazioni, di privatizzazione e, in alcuni paesi, in una congiuntura politica favorevole al ri-accentramento piuttosto che al decentramento funzionale, è vero che il governo locale mantiene un suo peso funzionale imprescindibile. Come ricorda Goldsmith,  il governo locale serve da veicolo all’espressione delle preferenze dei cittadini per quei servizi che non possono essere acquistati privatamente [...]. I governi locali devono definire delle priorità tra differenti voci di spesa: il modo in cui lo fanno può avere un impatto considerevole sul benessere individuale. Il modo in cui il governo locale determina l’uso del suolo può avere conseguenze enormi sul benessere individuale. Analogamente, tramite certi interventi e la combinazione di tassazione e di spesa che ne derivano, i governi locali possono rendere le loro comunità più o meno attrattive per l’investimento da parte del settore privato, con un forte impatto sul benessere della comunità [Goldsmith 1995, 235-236].

    Valutare il grado d’influenza reale del governo locale nel sistema politico è comunque una questione sociologica complessa. Per dare conto della varietà di approcci possibili, presenteremo nel prossimo paragrafo alcuni esempi contrastanti di analisi.

     

    1.2. L’influenza dei governi locali in una prospettiva comparata: approcci e strumenti
     

    ■ Approcci di tipo strutturale.

    L’approccio strutturale classico parte da considerazioni di natura giuridica, ma propone una tassonomia che mette in rilievo il grado di autonomia e di potere espresso nella norma. Questi studi individuano quattro tipi di relazioni centro/periferia, secondo due dimensioni:

     1)    le funzioni delegate alla periferia dal centro;

     2)    la capacità lasciata alla periferia di assumere iniziativa.

     Le quattro classi che ne derivano si differenziano per il possesso o meno di una o di entrambe le proprietà descritte:

     –       la prima classe è caratterizzata sia da molte funzioni delegate che da molta iniziativa lasciata nell’esercitarla e viene definita ad alta autonomia;

     –       a questa classe fa da contraltare la classe a bassa autonomia, che comprende le situazioni in cui le funzioni delegate sono scarse e la capacità di decidere di propria iniziativa è limitata.

     Tra queste due classi ci sono i due tipi intermedi: l’uno con funzioni delegate ma scarsa iniziativa; l’altro con iniziativa ma poche funzioni delegate.

     Sempre strutturale è l’approccio che parte dai fattori che limitano il governo locale. Tali fattori sono: 1) di tipo economico e sociale; 2) di tipo legale e politico.

     Tra i fattori di tipo economico e sociale si evidenziano:

     –         le limitazioni al reperimento di risorse al livello locale;

     –       l’esistenza di attori economici potenti capaci di controllare l’agenda politica;

    –       la presenza di movimenti sociali locali capaci di resistere alle politiche locali o di influenzare la loro implementazione.

    I fattori di tipo legale sono quelli, già segnalati, relativi a funzioni e capacità di iniziativa attribuiti ai comuni. Quelli politici sono invece attinenti alla qualità della leadership e alla sua capacità di imporsi sia all’interno che all’esterno della comunità locale.

    Un confronto sistematico di tipo strutturale tra diversi paesi dell’OCSE è stata ad esempio proposta di recente da Sellers [2006].  Vi si intende misurare il grado di statalismo nelle relazioni politico-amministrative (A) e in quelle fiscali(B)  con i livelli superiori di governo e lo statalismo, nonché il grado di statalismo leggibile nella struttura del governo locale (C). Gli indicatori presi in considerazione, sui quali appaiono disponibili dati nei ventidue paesi considerati, sono i seguenti:

    A)      assenza o meno di garanzia costituzionale dell’autonomia locale; assenza o meno di rappresentazione collettiva degli enti locali; proporzione dell’impiego pubblico locale sull’impiego pubblico totale; spesa degli enti locali nella spesa pubblica totale; supervisione degli eletti locali dai livelli superiore di governo; designazione dei responsabili del governo locale dai livelli superiori di governo; controllo della forma del governo locale dai livelli superiori di governo;

    B)      importanza dei trasferimenti nelle entrate dei governi locali; controlli dei prestiti locali; rapporto tra entrate garantite dalle tasse locali sull’insieme delle entrate fiscali; autonomia fiscale locale;

    C)      elezione del sindaco; durata del suo mandato; durata dell’assemblea comunale; capacità di veto tra esecutivo e legislativo ; rapporto dipendenti comunali e popolazione del comune; rapporto tra dipendenti reclutati a livello locale sul totale dei dipendenti comunali.

    Fig.1


    Un esempio di classificazione dei regimi locali sulla base del solo indicatore del rapporto tra spesa pubblica locale/spesa pubblica totale

     

     ■ Approcci incentrati sull’azione.

    Dagli studi organizzativi da una parte e dalla network analysis dall’altra derivano invece prospettive incentrate non sulla struttura ma sull’azione. Secondo tali approcci, il rapporto tra centro e periferia è prodotto dalle pratiche politiche quotidiane nel quadro di un sistema giuridico e culturale in perenne mutamento sotto l’influenza di tutti gli attori, forti o deboli. Grémion [1976] spiega ad esempio la crescita dell’influenza del segmento locale nel sistema politico francese degli anni Settanta con la capacità dei leader locali di sfruttare i numerosi spazi di incertezza lasciati liberi da un sistema fortemente centralizzato e burocratizzato [Crozier 1963]. Si può interpretare genericamente il rapporto tra local e central government come un rapporto competitivo tra due soggetti indipendenti, in cui entrambi gli attori dispongono di risorse (costituzionali e giuridiche, politiche, regolative, professionali e finanziarie) per rafforzare la propria posizione e acquistare nuove possibilità di azione. In un equilibrio basato sulla reciproca contrattazione. Si può alternativamente considerare che nessuna delle due parti possa sopraffare l’altra in un gioco a somma zero oppure mettere in discussione la simmetria del rapporto così descritta, enfatizzando l’ineguale distribuzione delle risorse tra stato e comuni, e giungendo ad elaborare modelli interpretativi più complessi che tengano conto delle diverse realtà [Rhodes 1981; 1986].

    ■ Approcci incentrati sull’efficacia.

    Un altro approccio non strutturale è quello incentrato non sulle relazioni fra attori, ma sulla loro efficacia. Alcune recenti riflessioni sull’evoluzione del sistema inglese ripropongono la questione del peso specifico del centro e della periferia analizzando il funzionamento del governo locale nelle sue dimensioni fondanti. Peso del governo locale e qualità della democrazia locale non possono essere distinti. Tutti i fautori, anche contemporanei, delle autonomie locali trattano infatti uno o più dei quattro elementi attribuiti in senso positivo dai teorici classici al governo locale, secondo cui esso avrebbe la capacità di:

    1)    favorire la partecipazione;

     2)    garantire servizi più efficienti;

     3)    fornire un equilibrio al potere centrale;

     4)    incentivare una più efficace rappresentanza degli interessi.

    Le nuove modalità della definizione e della messa in opera delle politiche pubbliche che vedono intrecciarsi in una trama complessa i livelli nazionali e locali, il privato e il pubblico, non costituiscono di certo, affermano alcuni, condizioni favorevoli allo svolgimento delle due ultime funzioni appena citate (la funzione di contrappeso al potere centrale e quella di diversificazione concreta della rappresentanza) [Stoker 1991; 1996]. Si può inoltre mettere in dubbio – pur non negando la maggiore vicinanza (anche fisica) tra elettori ed eletti – la capacità delle amministrazioni locali di incentivare la partecipazione diretta, invitando a riflettere sulla minore affluenza alle urne nelle consultazioni amministrative, sulla mancanza di effettiva competizione politica a livello locale, sulla predominanza di questioni di portata nazionale nel dibattito politico. Infine non sembra acriticamente accettabile la tesi secondo cui la produzione e gestione dei servizi a livello periferico sia più efficace. Tale avvertenza critica che scaturisce spesso dall’osservazione di contesti specifici, come quelli britannici, ricorda in breve che l’importanza delle unità periferiche di governo deve essere valutata attraverso molti indicatori, tra cui indicatori di «efficacia» politica riferiti ad una definizione specifica di buon governo locale.

    ■  Approcci strutturali integrati.

    In uno studio orami classico, Page e Goldsmith [1987] hanno suggerito una batteria sintetica di temi sulla quale può essere impostato un confronto tra situazioni. La proposta è quella di un approccio strutturale integrato che recepisca alcuni suggerimenti delle analisi non strutturali, ma rimanga orientato al confronto tra sistemi nazionali. Vi si evidenziano:

    1)    la posizione costituzionale e giuridica nell’ordinamento statale;

    2)    le funzioni attribuite alle amministrazioni locali;

    3)    il loro grado di autonomia;

    4)    la capacità impositiva ad esse riconosciuta dal regime fiscale;

    5)    la capacità di mediazione e contrattazione politica delle élite locali. La capacità di accesso al centro da parte delle élite locali è, affermano gli autori, un elemento determinante del peso delle comunità locali: significa risorse finanziarie, opportunità di sviluppo, capacità di integrazione interna. La descrizione delle carriere del personale politico tra centro e periferia diventa allora una tappa importante di analisi. Il cumulo dei mandati (che costituisce la regola, ad esempio, nelle carriere politiche francesi) facilita la costruzione di carriere multi-livello, quindi la presenza nella classe politica locale di eletti dotati di ampie «risorse d’influenza», tra cui una buona capacità di accesso al «centro» del sistema, contrariamente a quanto avviene dove si sviluppano carriere politiche separate tra centro e periferia. Tarrow [1977] aveva tuttavia osservato nel suo studio comparato sui sindaci francesi e italiani che il partito di massa poteva offrire al sindaco italiano un altrettanto efficace accesso alle risorse centrali.

    Tale capacità di contrattazione politica delle élite locali fa sì che alcuni sistemi politici si caratterizino per un forte "localismo politico", mentre il "localismo giuridico" misurato sulla base delle competenze dei comuni può essere invece molto basso.

     

    1.3  Geografia dei sistemi politico-amministrativi locali

    Le osservazioni precedenti hanno già messo in luce alcuni elementi di omogeneità, ma anche alcune forti divergenze nelle caratteristiche fondamentali dei governi locali occidentali. Nei paesi dell’Unione europea, in particolare, la struttura del governo locale e le sue modalità d’azione sono oggi caratterizzate da soluzioni sensibilmente differenti, dovute a determinanti storiche e scelte politico-giuridiche che ne hanno plasmato l’attuale configurazione.

    ■ I modelli di riferimento tradizionali nella comparazione combinano alcune considerazioni storiche sulle culture amministrative con analisi giuridiche sullo stato attuale delle relazioni tra livelli di governo. Tra queste citiamo per esempio gli studi di Bennett (esclusivamente riferiti all’ambito europeo), che assumono come discriminanti i due cleavages della Riforma protestante e delle conquiste napoleoniche [Bennett 1989; 1993]. In questa interpretazione, Riforma significa rapida secolarizzazione dell’amministrazione, che porta l’Europa protestante (settentrionale e occidentale) a contrastare con i persistenti tratti di gerarchia e separatezza tipici dell’amministrazione nella più cattolica Europa del Sud e dell’Est. La conquista napoleonica (più ancora che la Rivoluzione francese) costituisce poi una vasta area di influenza, formata da Francia, Italia, Belgio, Olanda, da buona parte dell’ex Jugoslavia e dalla Prussia, ma anche dalla Spagna, dal Portogallo, dalla Turchia, dall’Austria e dall’Ungheria; in quest’area il drastico decentramento della Rivoluzione fu rapidamente sostituito dal cosiddetto «sistema fuso», nel quale prefetto e sindaco sono rappresentanti decisivi del governo centrale, e nel quale la burocrazia tende ad inibire la rappresentanza e l’autonomia locale, mentre la forte personalizzazione degli esecutivi favorisce tuttavia la visibilità dei comuni. In Europa, i paesi di sistema fuso sono contrapposti ai paesi scandinavi da una parte (la Norvegia e la Svezia sono particolarmente rappresentativi), e alla Gran Bretagna dall’altra. Il modello scandinavo e quello britannico sono definiti «sistemi duali». Il modello scandinavo differisce dal modello britannico per la presenza di un organo esecutivo influente (un organo collettivo di governo guidato da un eletto) e per una cultura di «politica contadina» favorita dai movimenti popolari e dalla distanza dal governo centrale. In entrambi tuttavia i soggetti chiave sono le commissioni formate all’interno dei consigli comunali.

     ■ Le tipologie più note prendono quindi in considerazione le «aree di influenza» di culture nazionali che hanno determinato la storia politico-amministrativa di vaste regioni del mondo occidentale. Secondo la tripartizione classica esisterebbero tre tipi generali di rapporto tra centro e periferia nelle democrazie occidentali [Hesse-Sharpe 1991]:

    1)    nel primo gruppo, detto «franco group», rientrano i sistemi di tradizione napoleonica (Francia, Spagna, Italia, Portogallo, Belgio e per certi versi la Grecia): in essi si troverebbero elevata autonomia politica a livello locale, ma con autonomia giuridica relativamente debole;

    2)    nel secondo gruppo si collocano i paesi anglosassoni (Usa, Regno Unito, Irlanda, Canada, Australia e Nuova Zelanda), nei quali si registrano bassi livelli sia di autonomia politica sia di autonomia giuridica;

    3)   il terzo gruppo, concentrato nell’Europa centro-settentrionale, comprende la Scandinavia, l’Olanda, le Repubbliche federali tedesca, svizzera e austriaca, ed è caratterizzato da alti livelli di autonomia politica e giuridica.

     

    Box 2

     Sistema duale e sistema fuso

     

     

     

     

    Il confronto tra il grado di autonomia politica e il grado di autonomia giuridica tipica dei diversi contesti nazionali è stato suggerito guardando alle concrete modalità del decentramento da Page e Goldsmith [1987] nello studio comparato già citato dedicato a sette paesi europei. Dal confronto veniva sottolineato invece il semplice contrasto tra gli stati unitari del Nord e del Sud Europa, prima ancora della tripartizione classica.

    Negli stati del Nord Europa, che includono secondo noi la Gran Bretagna, la Danimarca, la Norvegia e la Svezia, il governo locale ha tradizionalmente svolto funzioni molto più estese che nel Sud, vale a dire in Francia, in Italia e in Spagna, dove il governo locale aveva responsabilità su una fetta limitata di funzioni fino alla fine degli anni Settanta, fino al momento in cui il governo locale (non soltanto e non sempre i comuni) ricevette funzioni addizionali. Le differenze nel grado di discrezionalità di cui godono i comuni nei sette paesi che abbiamo studiato non sono chiare. Ma il tipo di limitazioni alla discrezionalità in Scandinavia e in Gran Bretagna differisce da quello caratteristico degli stati del Sud Europa; in questi ultimi intervengono norme generali, leggi e regolamenti (regolazione statutaria), mentre nei primi le decisioni delle autorità locali sono prodotte anche con l’intervento di rappresentanti del governo centrale nelle prime fasi del policy process (regolazione amministrativa). La forza dei canali diretti di accesso, che hanno per base l’importanza della politica locale e della legittimazione locale nella costruzione delle carriere nazionali, che favoriscono legami stretti tra il centro e alcune località tramite il partito o le burocrazie, distingue Nord e Sud [ibidem, 161-162].

    Page [1991] successivamente definisce la differenza tra Nord e Sud d’Europa come la differenza tra un "localismo politico" al Sud ed un "localismo giuridico" al Nord. Dove si parla della prevalenza dell’elemento politico, ci si riferisce ad una forte influenza delle élite politiche localmente espresse nel quadro di una scarsa legittimazione giuridica dell’autonomia locale, mentre nell’altro caso si sottolineano le garanzie formali e le deleghe esplicite.

    Allargando l’analisi ad altri paesi, Goldsmith [1999] ha proposto un tentativo di aggiornamento della propria riflessione comparata, sempre sulla base di queste distinzioni fondamentali. Nei paesi dell’Europa settentrionale, egli afferma, la posizione della «periferia» si rafforza con la sua vocazione funzionale alla gestione di servizi sociali e sanitari secondo criteri di efficienza ed efficacia; il localismo di tipo giuridico si consolida con l’affermazione del principio di sussidiarietà, specialmente in Germania e nella regione scandinava, e con la diffusione delle pratiche di concertazione corporativa. Per l’Europa meridionale, vengono evidenziate le tendenze al decentramento operate in Francia e in Italia, ma nello stesso tempo permarrebbe una visione delle relazioni tra stato e autonomie che vincola l’iniziativa funzionale dei municipi, strettamente dipendente dai meccanismi del localismo politico. Queste osservazioni vanno riconsiderate alla luce delle profonde riforme dell’assetto statale introdotte in Italia dalla legge 142/90 alla revisione del Tiolo V della Costituzione. Ragionamento a parte viene effettuato dall’autore sulla Gran Bretagna. Secondo Goldsmith, infatti, da un lato la dettatura esplicita per legge delle competenze limita molto l’autonomia delle collettività locali, dall’altro la funzionalità all’interno dello stato sociale e la gestione congiunta con livelli superiori di governo di determinati servizi avvicinano il rapporto centro/periferia britannico alle strategie di governance dei paesi nordici. La collocazione dei paesi europei sugli assi costituiti dalle due dimensioni del grado di localismo politico e giuridico sarebbe quindi leggermente diversa da quanto suggerito dal modello ternario più classico.

    Anche il lineare confronto prettamente strutturale sviluppato da Sellers, precedentemente citato (2006),  porta a ridimensionare i modelli più classici per quanto riguarda i paesi europei. Secondo Sellers, fattori decisivi di differenziazione appare la numerosità delle popolazioni nazionali e l’estensione del territorio. E’ più facile far funzionare una struttura centralizzata in paesi “piccoli”, nei paesi più “grandi” i localismi sono maggiormente sostenuti. Il contrasto appare così netto, a partire dell’indice sintetico di statalismo che ha costruito tra USA,. Canada, Australia, e Grecia e Belgio. La dimensione non è tuttavia sola ad incidere: lo dimostra la posizione particolare della Svezia tra i paesi nordici, che si viene ad avvicinare ai paesi di media dimensione, tutti tuttavia piuttosto similmente collocati in questa scala localismo-statalismo.

    La distinzione tra localismo giuridico e localismo politico che orienta in fondo i modelli più classici riecheggia la distinzione più classica della sociologia politica statunitense, quella tra le civic cultures e le altre (parochial cultures o subject cultures [Almond-Verba 1963; Verba 1965]). L’idea di matrice weberiana di una minore qualità della democrazia nelle aree modellate culturalmente dal cattolicesimo è una sorta di riferimento rituale (più o meno esplicito) nelle analisi comparate dei sistemi politici locali. Questo riferimento obbligato, rintracciabile in tutte le tipologie classiche appena ricordate, anche non dicotomiche, è tuttavia utilizzato con sempre maggiore cautela, mentre si sottolineano con crescente enfasi i movimenti uniformizzanti rilevabili nelle profonde riforme amministrative e istituzionali appena introdotte o ancora in discussione.

     

    Fig. 2 Localismo e dimensioni strutturali (Fonte: Sellers 2006)

     

     

     1.4 Il rappresentare nella sfera politica locale
     

    La privatizzazione, l’esternalizzazione dei servizi, la ricostruzione dei sistemi di partiti e, in molti casi, i processi di decentramento e di attuazione del principio di sussidiarietà hanno avuto come conseguenza una drastica trasformazione dei ruoli degli eletti, in particolare nei paesi europei. In molti di questi paesi, riforme istituzionali radicali hanno illustrato queste tendenze, hanno ridefinito (e ridefiniranno nei prossimi anni) la configurazione delle competenze, in genere enfatizzando la visibilità dei sindaci; hanno cercato di controllare l’instabilità degli esecutivi; hanno introdotto forme diverse di consolidamento del polo burocratico.

    Due sono le direzioni di innovazione intraprese dalla fine degli anni Ottanta che portano a ridisegnare similitudini e differenze tra i sistemi di governo locale in Europa. Si è da una parte ovunque progressivamente cercato di rendere più visibile e di rafforzar le leadership locali, politica e amministrativa, alla ricerca di maggiore efficacia e rispondenza, e nel tentativo di ricostituire su basi nuove il legame tra cittadini e politica. Si sono poi profondamente cambiate le operazioni che costituiscono l’attività quotidiana degli enti locali, con la delega, sotto diverse forme, di molte funzioni ad organismi monofunzionali o plurifunzionali esterni agli enti locali  l’innovazione amministrativa è  stata declinata specificamente all’interno dei singoli paesi, per il peso delle norme e delle culture, per l’influenza di diversi leader d’opinione, ma i riferimenti culturali, diversamente tradotti, sono spesso unici: è il discorso  del New Public Management, sostenuto dall’OCSE, profondamente intriso di neoliberismo.

    L’idea che i cittadini di un comune debbano poter eleggere direttamente il loro sindaco è di recente diventata luogo comune della cultura politica europea. Totalmente estranea alla tradizione in molti paesi dell’Unione Europea, l’elezione diretta del sindaco trovava realizzazione completa soltanto in Grecia e in qualche Land tedesco e imperfetta in Spagna e in Francia, mentre altrove o il sistema dominato dalle commissioni permanenti non prevedeva figura preminente oltre a quelle di presidente dell’assemblea e delle commissioni, tutt’al più un sindaco con ruolo cerimoniale come nel caso inglese,  o il sindaco era eletto in seno all’assemblea ed esprimeva  l’equilibrio di maggioranza raggiungibile sulla base del risultato elettorale. Facevano, come continuano a fare eccezione, i casi dei Paesi Bassi e del Belgio dove i sindaci sono nominati dalla corona, nel secondo caso tuttavia in seno e su proposta del Consiglio.  Nell’arco di pochi anni l’elezione diretta del sindaco è stata introdotta in Italia, in tutta la Germania, sperimentata e progressivamente estesa in Gran Bretagna e in Norvegia, mentre dappertutto si afferma la tendenza a consolidare la dimensione esecutiva del ruolo del primo cittadino. Tale rafforzamento porta tendenzialmente nei paesi nei quali le commissioni erano organi determinanti nel processo decisionale a forme inedite di parlamentarismo locale , dove il sindaco può assumere la figura di un primo ministro locale (come è il caso in alcune esperienze britanniche), o rimane, come in Svezia, il Presidente di una commissione, una commissione principale dai poteri allargati. Più spesso tuttavia, è il caso in Germania, in Italia, in molti paesi dell’Est Europa, con l’elezione diretta si istituisce il presidenzialismo locale che era tipico del sistema francese (nel frattempo soltanto leggermente emendato).

    La rappresentanza locale costituisce così in tutte le democrazie occidentali un luogo fondamentale di mutamento [Caulfield-Larsen 2002]. Parallelamente, l’affluire di newcomers nella classe politica (attratti dalle dimensioni nuove dei ruoli, o più semplicemente chiamati a sostituire un personale politico per vari motivi non più disponibile) ha attribuito alle assemblee elettive locali e soprattutto agli esecutivi la fama di aree di reclutamento «professionale» caratterizzate da un certo rinnovamento. In conseguenza di queste trasformazioni strutturali e normative, in tutti i paesi europei appartenere ad un’assemblea elettiva locale, o ad un esecutivo locale non ha più il significato che aveva vent’anni fa; cambiano infatti la posizione nella «carriera» politica, lo status sociale, i rischi e le aspettative personali, le risorse istituzionali e le responsabilità personali. Anche per la debolezza funzionale persistente in alcuni settori delle formazioni politiche, gli schemi di selezione e di formazione tuttavia spesso non si sono adeguati a queste trasformazioni strutturali.  Il caso italiano illustra, accanto ad alcuni elementi di novità (minor peso del partito nella formazione – ma non altrettanto nel reclutamento - , minor lunghezza delle carriere elettive, maggiore localismo, una maggiore proporzione di sindaci a tempo pieno), la permanenza di molti tratti storici del reclutamento (poche donne e pochi giovani malgrado qualche progresso, una proporzione ancora troppo contenuta di laureati), che non possono che limitare la capacità di rispondere alle diverse istanze locali (Magnier 2012).


    2.  Le nuove modalità dell'agire pubblico locale:  il caso della pianificazione urbana

     

    L’organizzazione del territorio urbano e la definizione dei principi e delle procedure di realizzazione delle infrastrutture in cui si inscrive la vita cittadina costituiscono l’attività più importante di un’amministrazione locale. La pianificazione degli spazi a livello comunale ci porta al cuore del problema posto dalla letteratura sulla governance urbana e ci aiuta a comprendere le recenti trasformazioni dell’azione pubblica locale.

    2.1. Piano e complessità

    Nel discorso oggi diffuso sulla pianificazione territoriale traspare l’atteggiamento ambiguo del ceto politico  (non di rado anche spesso dei sociologi) sulla stessa governance. Spesso si tende a velare la pianificazione come azione chiave di governo sotto l’etichetta (pleonastica) di ‘pianificazione strategica’. In realtà, il piano è strumento di governo che associa analisi preliminare  e progetto politico, e come tale non può non essere ‘strategico’. Nella pianificazione, il progetto politico (che consiste in un’insieme di azioni) trova radice in un’analisi sistematica delle risorse disponibili per realizzare obiettivi definiti. Tali obiettivi riflettono una definizione “accentrata” dell’utilità sociale, che può risultare dalla riflessione individuale del decisore (intuitiva, politica, vale a dire fondata sulle conoscenze acquisite mediante i contatti con gli esponenti della società locale) o su un’analisi sistematica che lo stesso decisore ha commissionato ad esperti.

    Perfino in ciò che sono in fondo le sue interpretazioni più pessimistiche e riduttive, ispirate al tema della razionalità limitata, la pianificazione di per sé entra in contraddizione con l’idea chiave che sottosta alla nozione di governance, che convenga lasciare che le decisioni siano il prodotto delle complesse (e nei loro risultati imprevedibili) pressioni di, o contatti tra, stakeholders, quale sia la definizione che del termine si adotti.

    Renate Mayntz [1998], percorrendo lo sviluppo teorico del modello della governance  ne individua le premesse nella fase di riflessione sui problemi di attuazione delle politiche pubbliche che seguì l’euforia pianificatoria degli anni Sessanta. I primi successi del discorso sulla governance corrispondono con coerenza ad un diniego radicale del piano come strumento di governo. Le rinnovate critiche sociologiche all’illuminismo” pianificatorio pongono l’accento negli anni Settanta sulla complessità crescente della società e l’imprevedibilità dei suoi cambiamenti; che negli anni Ottanta portano spesso al rifiuto totale del piano e al leitmotiv della “pianificazione per progetti” in urbanistica.

     Il modello interpretativo marxista – che allora domina nell’analisi sociologica della pianificazione urbana considera la pianificazione territoriale come l’espressione più chiara dell’utilizzo dell’attività burocratica come strumento e maschera dello sfruttamento capitalista. Castells nella Questione urbana [1970] lo riassume in questi termini:

    "Nell’apparato politico-giuridico, la pianificazione urbana tutela il modo di produzione per gli interessi della classe dominante [...] È strumento di dominazione e risoluzione delle contraddizioni in seno alle classi dominanti; di repressione e integrazione delle classi dominate".

    Lefebvre negli stessi anni declina diversamente ma con la stessa veemenza la critica marxista alla pianificazione, guidata dalla ricerca del profitto e condannata dai propri errori, quelli tipici dell’«intelligenza analitica» [1970b]. Gli errori, accusava già Adorno, del funzionalismo:

    "Il momento illusorio della funzionalità fine a se stessa emerge dalla riflessione sociologica più elementare. Ma di essa sono parte integrante delle irrazionalità, ciò che Marx chiamava i suoi faux frais, giacché, malgrado la pianificazione, oggi come ieri il processo sociale si svolge sostanzialmente alla cieca, in modo irrazionale. Un’irrazionalità di cui portano il marchio tutti i fini e, dunque, anche la razionalità dei mezzi tramite i quali quei fini dovrebbero essere raggiunti [Adorno 1947; 1977]".

    Negli anni Ottanta, diventa convinzione generalizzata che i sistemi di pianificazione urbana non siano ormai in grado di far fronte alle trasformazioni strutturali che condizionano lo sviluppo fisico e la gestione politica dei grandi insediamenti urbani. La contrattazione con le imprese private per la realizzazione di grandi progetti o anche solo di piccoli interventi, indipendentemente dalla procedura formale di pianificazione, tende così a diventare l’elemento prorompente dello scenario: i sistemi urbani crescono o cambiano, nei loro tratti fisici, a seconda dei progetti che si riescono via via a realizzare. La vitalità incoerente di alcune città americane prende valore di illustrazione di un processo di sviluppo dotato di forte spontaneità, quello della pianificazione per progetti, teorizzato anche come inevitabile da alcune scuole di urbanisti, per i quali la «città collage», che si compone giorno dopo giorno secondo un processo cumulativo di interventi privati [Rowe 1979], diventa la sola formazione urbana realizzabile. Tale impostazione trova sostegno non solo nelle critiche dei decenni precedenti all’ideologia urbanistica appena ricordate, ma anche in più recenti teorie della complessità. Si denuncia l’incapacità della pianificazione a dominare sistemi «ipercomplessi» come gli attuali sistemi territoriali [Morin 1984], caratterizzati dalla molteplicità dei luoghi di decisione e dall’andamento caotico dei processi. Sotto un profilo più tecnico, alcuni urbanisti sottolineano il contrasto tra una impostazione della pianificazione spaziale rigidamente organizzata sul principio della gerarchia tra livelli territoriali di governo (dal locale al nazionale), quindi tra piani, e i meccanismi nuovi di multi-level governance che esaltano la capacità di iniziativa dei livelli territoriali «inferiori» [HealeyWilliams 1993]. Le critiche portano a due atteggiamenti diversi: la negazione della pianificazione da un lato, e la sua riproposizione con strumenti analitici e giuridici alternativi.

    In questa prospettiva si propone una rappresentazione che vede nello spazio post-industriale nient’altro che un’intersezione di reti economiche e sociali di dimensione internazionale, connesse da flussi di informazioni sempre più indifferenti alla fisicità dei luoghi e al peso delle distanze. In uno scenario di questa natura, pensare di esercitare un controllo mediante il piano rappresenta una pretesa insensata: un retaggio di utopia regressiva e autoritaria, che pretende di ricondurre lo spazio a un insieme di comunità locali organicamente compatte e funzionalmente ordinate. Semmai un interesse specifico deve essere rivolto verso alcuni punti singolari del nuovo spazio post-industriale, specialmente verso luoghi ove si concentrano i simboli della nuova società, quali, ad esempio, le aree direzionali dei centri metropolitani. Per contro, l’intervento su questi punti deve rivestire il carattere della libera progettazione e non quello del controllo pianificatorio [Mela 1996, 127-128].

    La prospettiva neo-liberale che in gran parte contribuì nelle fasi iniziali al successo del discorso sulla governance viene negli anni Ottanta a convergere con questi filoni portando se non ad un rifiuto totale del piano, alla proposta di una pianificazione minimale, fondata sulla richiesta: richieste da parte di alcuni segmenti della società e richieste dei professionisti dell’edilizia nella trasformazione territoriale: l’azione di governo dovendosi limitare a garantire una coerenza di massima tra i progetti e possibilmente ad offrire le infrastrutture necessarie.


    2.2 Una pianificazione per tempi di governance ?

     La pianificazione per progetti ha mostrato rapidamente i suoi limiti prevedibili; dal punto di vista sociale, trattandosi di interventi sempre mossi da un interesse specifico che non può essere di categorie deboli; ma anche dal punto di vista dell’equilibrio finanziario e funzionale della città: spetta sempre al pubblico garantire le misure di sostegno e di accompagnamento definite in partnership territorialmente confinate al singolo progetto indipendentemente dal suo contesto socio-fisico. Ma molti fattori convergono nel mantenere viva la spinta implicita alla pianificazione per progetti. Nel grande come nel piccolo comune, è tale la discrepanza tra mezzi delle aziende private e capacità finanziarie dei governi locali che l’offerta di realizzare un’opera, in un’ottica di crescente competizione tra enti locali, viene interpretata come occasione insperata che merita molti sacrifici. In sistemi urbani densi, in un contesto di stagnazione demografica, recupero e grandi infrastrutture di mobilità sono le due chiavi della trasformazione urbana; la dipendenza dal privato in settori che richiedono soglie di investimento molto alte diventa dato strutturale della vicenda urbanistica, anche nei paesi con forti tradizioni di intervento pubblico diretto o indiretto nell’attività edilizia. Incide poi la volontà di visibilità della leadership locale, il grande progetto, più che il grande piano, permettendo ad un sindaco di lasciare traccia visibile nel territorio cittadino. In Europa, perfino le forme di finanziamento e la cultura amministrativapromossa dalle istituzioni dell'Unione  spingono in direzione di un ragionamento per «progetto».

    E’ quindi nella direzione della ricerca di un nuovo equilibrio tra piano e progetto che si muovono allora le innovazioni politico-amministrative.

     Negli ultimo vent’anni il discorso sulla governance si è così paradossalmente trovato a sostenere un ritorno in auge della teoria della centralità del piano, e più precisamente di “nuovi” piani territoriali. Questo ritorno del piano come strumento celebrato di governo, specialmente visibile nella pianificazione territoriale, traduce il tentativo non facile, di armonizzare il piano con atteggiamenti orientativi dell’azione pubblica improntati non più al controllo gerarchico ma alla cooperazione tra attori, interni ed esterni alle strutture statuali, è spesso proteso anche a salvare i fondamentali del modello socio-democratico in una congiuntura non favorevole; a mitigare le conseguenze dell’adozione di prospettive neo-liberali nelle pratiche di governo, reintroducendo coerenza tra le trasformazioni determinate dal progetto privato e obiettivi di giustizia sociale e di inclusione, nonché qualche sistematicità nell’analisi dei contesti che influenzano lo sviluppo delle politiche pubbliche.

     

    2.3. La "globalizzazione" della cultura di piano

    Nell’ultimo decennio principalmente l’europeanizzazione della pianificazione territoriale è venuta a costituire un importante  campo di investigazione alla frontiera tra scienza della politica, teoria urbanistica, planning reserach e studi europei. L’impatto dell’integrazione europea sulle culture e la pratica della pianificazione territoriale  a livello nazionale e locale è stato analizzato partendo dall’osservazione del recepimento locale dei programmi ed iniziative europei   (Urban, Leader, Interreg), la costruzione  dell’architettura complessiva dei fondi strutturali e il loro utilizzo locale, o, più recentemente, la relazione tra priorità  territoriali e l’ European Spatial Development Perspective, i cambiamenti introdotti nella pianificazione territoriale locale attraverso numerose politiche dell’Unione , per l’ambiente, i trasporti, l’agricoltura in prima istanza. Considerando le forme di europeanizzazione top-down della pianificazione territoriale, Dühr et al.[2010] ne identificano quattro grandi categorie:

    1) politiche dell’UE con impatto territoriale, specialmente destinate a settori geograficamente definiti (la politica di coesione terriotoriale)

     2) politiche dell’UE con impatto territoriale, ma non destinate a settori geograficamente definiti (la politica di competizione)

     3) La legislazione dell’UE che ha un impatto diretto sulla legislazione locale e le pratiche di pianificazione (come la Direttiva Seveso, Natura 2000, le Direttive sulla Valutazione di Impatto Ambientale, la Water Framework Directive, il re-scaling della Pianificazione delle Acque a livello dei bacini di fiume)

     4) specifiche iniziative, programmi e strumenti  (un esempio tra tutti “Urban”)

    Un’ulteriore categoria potrebbe essere aggiunta: la produzione di concetti di governo che hanno influenza, attraverso quest’ultimo tipo di intervento ma non soltanto, sulla pratica di governo a livello locale. Il Libro Bianco sulla Governance Europea  offre una delle migliori sintesi di questi concetti di governo. Non si riferisce esplicitamente ai livelli territoriali di governance o alla pianificazione territoriale. Ma propone una riaffermazione prescrittiva delle tendenze di innovazione nella pianificazione territoriale promosse nei vari segmenti della polity europea.  I suoi cinque principi (openness, participation, accountability, effectiveness, coherence) costituiscono una rappresentazione schematica della strada intrapresa dagli enti locali europei nella direzione dell’integrazione.

    Anche in questo campo tuttavia l’europeanizzazione deve anche essere compresa come forma di globalizzazione (Nederven 1999, Kriesi 2008, Favell et al. 2011). Il discorso sulla pianificazione, la retorica nella comunità dei pianificatori rimane spesso dipendente delle categorie anglo-americane. Il discorso professionale dominante  trova origine, ci ricorda Sandercock (1998) nella teoria critica della pianificazione e si sviluppa in opposizione alla “pianificazione razionale” e in reazione al disincanto di fronte alla pianificazione a difesa e alle sue successive rivisitazioni. Si sviluppa in primo luogo come tentativo creare un ponte tra il sapere tecnico/esperto e quello esperenziale/personale, ridefinendo la posizione dei pianificatori e risolvendo la separazione tra estensori e beneficiari del piano, quindi cambiando il linguaggio della pianificazione. Secondo la formula di Friedmann, già nel 1973, introducendo reciprocità (apprendimento mutuo) tra le due figure in uno stile “transattivo” di pianificazione. Il tema è declinato  alla fine degli anni Ottanta, con riferimenti alla teoria dell’azione comunicativa di Habermas, da un largo gruppo di pianificatori (John Forester, Patsy Healey, Judith Innes tra gli altri), sottolineando la “razionalità comunicativa” della pianificazione. Centrale nella loro analisi, come lo era nel Retracking America  di Friedmann, è l’attenzione per le relazioni tra sapere e potere. L’orientamento chiave che propongono per rinnovare la pianificazione sta tuttavia nell’architettura “comunicativa” o “collaborativa” del piano, inteso come “discorso aperto”.


    2.4. I diversi contesti di ricezione

    Questi riferimenti nuovi dei professionisti e delle leadership urbane si inseriscono tuttavia in contesti normativi e culturali tradizionali diversificati, non ugualmente rispondenti alle dinamiche dei sistemi urbani, alle esigenze della loro programmazione e gestione, nonché, nel caso dei paesi europei, agli orientamenti politico-amministrativi dell’Unione. Soffermiamoci sul caso, esemplare per quanto riguarda i procesis di cambiamneto delle culture e pratiche amministrative e professionali dei paesi europei. Non è un caso se, negli anni Novanta, la Commissione europea ha impegnato molte risorse in una vasta operazione di bilancio comparato sulle pratiche di spatial planning nei paesi dell’Unione (European Compendium of Spatial Planning Systems, rapporto comparato 1998 e relativi rapporti nazionali successivi [EC 1998b]). Le strutture di spatial planning vi esprimono con immediatezza la varietà delle culture politico-amministrative e delle ripartizioni di competenza tra livelli territoriali di governo, nonché tra privato e pubblico, tra privato «organizzato» e singolo cittadino.

    * Il termine stesso di spatial planning è stato scelto dalla Commissione per designare «l’influenza delle autorità pubbliche sulla distribuzione delle  attività nello spazio» proprio perché neutro, vale a dire estraneo a tutte le tradizioni nazionali. La terminologia in uso esprime, invece, la profonda diversità dei principi di intervento. Vediamone qualche esempio:

     –               ruimtelijke ordening nella tradizione olandese significa in un’accezione molto ampia «produzione» e gestione delle terre come risorsa rara, garanzia di sopravvivenza e di sviluppo della comunità;

    –               aménagement du territoire nella tradizione francese significa pianificazione principalmente economica promossa al livello nazionale, articolata in linee di intervento fortemente costrittive per  i comuni;

    –               town and country planning nella tradizione britannica significa esclusivamente regolazione dell’urbanizzazione pubblica e privata.

    * Il rapporto della Commissione europea individua due linee di differenziazione nelle tradizioni di intervento:

    1)       in alcuni paesi (Germania, Francia, Austria, Finlandia) le pianificazioni sociale, economica, ambientale e delle infrastrutture sono fortemente integrate dal punto di vista funzionale (e in primo luogo sono svolte dagli stessi attori), mentre negli altri ciò non avviene;

     2)       la relazione tra i luoghi della produzione del piano e quelli dell’implementazione varia molto. In Spagna, Grecia e, con alcune eccezioni significative, in Gran Bretagna, si trovano casi in cui gli attori pubblici che hanno prodotto il piano partecipano in misura minima alla sua implementazione.

     Queste due linee di frattura portano alla costruzione di una tipologia che evidenzia quattro approcci tradizionali, tipici di insiemi regionali eterogenei:

     –       regional economic planning approach: la pianificazione spaziale definisce i grandi obiettivi economici e sociali. È l’approccio caratteristico della Francia, del Portogallo, così come lo è stato della Germania orientale;

    –       comprehensive integrated approach: pianificazione e promozione a tutto tondo degli interventi pubblici nelle comunità. È tipico di tutti i paesi nordici e dell’Olanda;

     –       land use management: controllo dell’uso del suolo a livello strategico  e  locale  (Regno  Unito,  Irlanda,  Belgio);

     –       urbanism: l’interesse esclusivo per la struttura urbanistica, il paesaggio urbano e il controllo dell’attività edilizia si esprime in zoning e rigide codificazioni delle caratteristiche architettoniche; rigidità della codificazione e scarsa efficacia del piano sono le due facce della stessa medaglia. È la forma di intervento che caratterizza la tradizione dell’Europa mediterranea e che mal risponde ai bisogni mutevoli di intervento per la trasformazione urbana. Effetto perverso, suscita illegalità diffusa: il mutamento, secondo il processo tipico delle organizzazioni nelle quali si approfondisce all’eccesso il «fenomeno burocratico», avviene negli «interstizi» tralasciati dal controllo [Crozier 1963]. Varianti e abusivismo sono le soluzioni adattive classiche alla rigidità dell’impianto burocratico.

    Al centro della riflessione sulla pianificazione territoriale sviluppata negli ultimi decenni nei paesi di tradizione detta di urbanism stanno la distinzione tra i diversi tempi della pianificazione (i tempi lunghi della definizione strategica di obiettivi, i tempi brevi nei quali gli obiettivi si concretizzano nell’attuazione dei progetti) e la definizione di figure e procedure nuove capaci di promuovere le forme di contrattazione necessarie al governo di sistemi socio-territoriali complessi, e principalmente la negoziazione degli obiettivi e il monitoraggio delle realizzazioni.

    Nei paesi dell’area mediterranea,  queste  riflessioni  hanno suggerito  sperimentazioni etichettate di “pianificazione strategica” , spesso svolte parallelamente  alle forme tradizionali e normate di pianificazione territoriale,   ma  stimolato anche l’inizio di processi di revisione della legislazione urbanistica.

    In Italia, dalla metà degli anni Novanta, due intensi movimenti di riforma investono così l’attività degli enti locali nel governo del loro territorio. Il movimento di revisione delle pratiche e della cultura amministrativa nazionale etichettato ‘pianificazione strategica’ trova dal 1998, con l’esperienza torinese, una sua declinazione ‘territoriale’ che investe in meno di dieci anni, con modalità diverse, alcune province, ma soprattutto molti piccoli e grandi comuni, in particolare una quota importante dei capoluogo di provincia.

    Nel contempo si assiste all’evoluzione, altrettanto dirompente, di modalità di analisi e di tratti operativi di pianificazione fisica (urbana e territoriale) che ha portato dall’inizio degli anni Novanta alla costruzione di nuove procedure di spatial planning.


     2. 5. La pianificazione strategica

     L’espressione «pianificazione strategica» è stata usata in alcuni paesi (Gran Bretagna, Francia, Olanda) a partire dagli anni Sessanta per designare piani sovralocali di stampo socio-economico e di inquadramento territoriale con una prospettiva di medio-lungo periodo. Oggi con questa espressione vengono riassunti orientamenti assai diversi nel rinnovamento delle pratiche di organizzazione della trasformazione urbana.

     Gli elementi definitori, che accomunano i diversi modelli «strategici» di pianificazione, sono tuttavia evidenti [Gibelli 1996, 15]:

    •  La pianificazione strategica è concepita per il governo dei sistemi socio-territoriali complessi

     •  L’approccio all’analisi delle situazioni socio-territoriali è multidisciplinare

     •  È dichiarata la volontà di integrare le politiche di settore

     •  Il piano è concepito come processo, non come prodotto

    •  Si distinguono tempi diversi nella pianificazione (quelli lunghi della definizione strategica di obiettivi, quelli brevi dei piani destinati alla loro realizzazione)

    •   Si definiscono rigorosamente figure e procedure per la contrattazione (nella negoziazione degli obiettivi, per il monitoraggio della loro attuazione)

    Alcuni studiosi delineano una sequenza temporale di generazioni di piani strategici. La storia recente della pianificazione urbana occidentale sarebbe così segnata dalla successione di tre diverse modalità di tentativi di affermazione di modelli strategici di pianificazione.

    1)  Si definiscono sistemici i piani strategici che appaiono alla fine degli anni Sessanta in alcuni paesi europei (gli structure plans inglesi e gli schéma directeurs francesi, ad esempio). Segnano l’introduzione di un sistema di pianificazione su due livelli in cui alla pianificazione «fisica» (development plans) si sovrappongono in posizione gerarchicamente dominante piani di indirizzo economico, sociale e spaziale su vasta scala e con prospettiva di medio-lungo periodo (structure plans) [Planning Advisory Group 1965; Booth-Jaffe 1978; Simmie 1994].

     2)  Si definiscono invece aziendalisti i piani strategici che appaiono negli Stati Uniti e che diffondendosi negli anni Ottanta in Europa si  trovano ancora in parte ben rappresentati in molte delle più note esperienze recenti del Sud Europa.

    Questi piani si ispirano allo strategic planning aziendale che si può definire in estrema sintesi come l’attività (o il processo interattivo) di definizione degli obiettivi di lungo periodo dell’impresa (in termini di prodotti/mercati/tecnologie) integrata con le attività di controllo/ottimizzazione dei processi idonei per perseguire tali obiettivi [Gibelli 1996, 24].

    Le prime esperienze statunitensi di pianificazione aziendale nascono sullo sfondo della deregulation e della penuria di risorse finanziarie. Esse tendono in primo luogo a coinvolgere la «comunità degli affari» nelle decisioni e nei progetti locali attraverso il ricorso crescente al partenariato tra pubblico e privato. I piani strategici che vengono promossi in questi anni privilegiano forme di accordo negoziale con i privati e iniziative di partenariato che prevedono la contrattazione come misura di compensazione volta a produrre benefici collaterali (side-benefits) per la collettività urbana [Fainstein 1994].

    Le prime esperienze europee riferibili a questo orientamento risalgono alla metà degli anni Ottanta. Nel 1987 esce il numero speciale del «Journal of American Planning Association» sulle esperienze di applicazione della pianificazione strategica aziendale al funzionamento delle organizzazioni pubbliche [JAPA 1987] e due anni dopo la ricerca della DATAR [Demeestere-Padioleau 1988] sugli approcci strategici di alcuni comuni francesi. Le leadership urbane imprenditoriali vi vedono l’opportunità per raggiungere l’obiettivo pragmatico del get something done, vale a dire realizzare in tempi brevi piani e progetti coerenti con gli obiettivi dell’amministrazione; ciò significa legittimare il piano, e quindi anche i suoi promotori, con qualche realizzazione visibile. L’inner city policy, nella versione conservatrice degli anni Ottanta, è piuttosto eterodiretta, ma fuori dal contesto anglosassone di quegli anni la pianificazione strategica di seconda generazione si associa al processo di decentramento e di crescente competizione tra sistemi urbani. Nel caso francese, vengono accentuate le propensioni alle politiche per lo sviluppo [Le Galès-Oberti 1993], con progetti «modernizzanti» stereotipati. La Spagna si caratterizza per l’imponente presenza di grandi società di consulting alle quali è affidata l’elaborazione stessa dei piani strategici; si caratterizza inoltre e per il forte accento posto sul miglioramento dell’immagine internazionale e per la costruzione di accordi negoziali solidi fra amministrazione e gruppi di interesse forti, mentre appaiono decisamente sottorappresentati gli interessi deboli e i temi del riequilibrio su scala metropolitana.

    3) Vengono infine definiti reticolari quei piani strategici che rappresenterebbero le risposte ai bisogni più attuali di innovazione nella pianificazione, in particolare al bisogno di garantire la mobilitazione della popolazione per lo sviluppo locale. In questa fase, di terza generazione, la pianificazione strategica tenderebbe a ritrovare l’attenzione per la vasta scala, ma con un approccio incrementale, secondo un modello reticolare e cooperativo di pianificazione che esprime, prima che la ricerca di una razionalità sostantiva (l’ottimizzazione del contenuto delle decisioni), la volontà di migliorare la razionalità procedurale; si tratta in breve di lavorare innanzitutto alla definizione di obiettivi largamente condivisi nella società locale, alla costruzione di un consenso considerato come la condizione necessaria all’efficacia dell’azione pubblica, o, come si afferma a volte più ambiziosamente di “capitale sociale”.  Il movimento italiano di pianificazione strategica territoriale si reclama di questo terzo modello pur adottando procedure che si osservano anche nelle esperienze spagnole: queste procedure hanno per esito la redazione di un piano che partendo dall’analisi del contesto, passando dalla definizione di una “visione” di città, consiste in una raccolta di schede-progetto che raccolgono le adesioni degli attori locali disponibili ad impegnare loro risorse nella realizzazione (cfr. Box).

     

    2.6 Il caso italiano: l’introduzione dell’approccio strategico nella pianificazione territoriale

    Dopo la pionieristica operazione di Torino, conclusasi nel 1998, le sperimentazioni di piani strategici territoriali si intensificano fino alla seconda metà del primo decennio del Duemila, coinvolgendo una quota importante dei comuni capoluogo di provincia, ma anche associazioni di comuni più piccoli. Collegate culturalmente, grazie anche alla costituzione di una rete che facilita lo scambio di informazioni, queste esperienze esprimono nella loro diversità la varietà delle sfide alle quali devono allora rispondere le città italiane nonché delle risorse di innovazione che sanno offrire società e amministrazioni locali. Nascono spontaneamente, si organizzano e si finanziano localmente. Il movimento entra in una fase nuova del suo percorso di codificazione culturale, in parte in continuità, in parte in rottura con il modello che fino ad allora se ne era imposto, con la lettura ministeriale degli indirizzi della programmazione europea 2007-2013, che indica il ‘piano strategico delle città’ come «strumento per ottimizzare le condizioni di sviluppo della competitività e della coesione», lo indica come modello di organizzazione dello sviluppo finanziabile, in particolare nel quadro di programma destinato alle aree meridionali, richiamando il  mainstream italiano, ma piegandolo a logiche accentratrici. Ne risulta una nuova ondata di piani strategici nelle regioni del Sud Italia. Negli anni più recenti, nella pratica degli enti locali italiani, l’etichetta di piano strategico viene allargata a documenti programmatici che raccolgono grandi indirizzi di sviluppo locale e di trasformazione territoriale, fondati su analisi sistematiche esperte e risultati di consultazioni locali, costituiti secondo procedure estremamente diverse e orientati ad inserirsi con successo in linee di finanziamento nazionale ed europee, specialmente nei fondi strutturali 2014-2020. Con la legge Del Rio, la costruzione di un Piano strutturale diventa, per la prima volta, attività obbligatoria di un ente pubblico, la città metropolitana.

     

    Box 3 

    La costruzione di un Piano strategico nell'esperienza italiana

     La sequenza dei lavori prevede due fasi principali di analisi:

     1) una fase di definizione degli obiettivi strategici: dalla definizione collettiva dellla situazione della città (sia del suo posizionamento funzionale attuale e possibile nella gerarchia urbana, sia della sua qualità "fisica" e "sociale) affidata in genere ai tecnici, e dall'enucleazione dei principi di intervento che devono delineare i politici, emerge un modello di città che riassume gli obiettivi del piano;

    2) una fase di definizione delle azioni, dedicata all'identificazione dei temi critici e delle risorse per la realizzazione degli obiettivi. In una fase tecnica dell'analisi, vengono individuate le aree di politica pubblica particolarmente deficitarie rispetto agli obiettivi di piano. All'interno di queste aree si definiscono gli indirizzi politici di intervento e successivamente, previi approfondimenti dell'analisi tecnica, le azioni volte a rimuovere gli ostacoli e i requisiti tecnici per la loro messa in opera in accordo con i principi di intervento definiti nell'arena politica; nonché le risorse economiche e umane, locali ed esterne, alle quali si deve attingere per rimuovere gli ostacoli e raggiungere gli obiettivi di piano.

     Gli organi della pianificazione strategica includono in genere:

     - un comitato promotore, formato da attori privati e pubblici, locali e non, che lancia e sostiene l'iniziativa;

     - un comitato organizzativo, vero e proprio esecutivo, che emerge dal comitato promotore ma nel quale sono inseriti alcuni tecnici;

     -gruppi di lavoro tematici ai quali il comitato organizzativo affida speciali sezioni dei lavori di piano, nei quali la componente tecnica è predominante;

     -organi di partecipazione che consentano una partecipazione ampia della poolazione attraverso i rappresentanti delle sue molteplici strutture di aggregazione.


    Mentre cresceva il movimento verso la pianificazione strategica territoriale e si perfezionava la sua codifica, le Regioni italiane, in grado finalmente di assumere le responsabilità a loro attribuite costituzionalmente in materia di urbanistica,  definivano la propria struttura di pianificazione fisica in rispondenza con le stesse esigenze del contesto, istituzionale e socio-politico, alle quali i piani strategici volevano rispondere. Le soluzioni adottate sono diverse ma nell’insieme i piani fisici di nuova generazione delle diverse regioni italiane sono senza dubbio estremamente ‘strategici’ rispetto alla generazione precedente.

    La proposta guarda ai tempi lunghi, poiché la ricerca della ‘sostenibilità’ la orienta, e solo ai tempi lunghi poiché la realizzazione (la tattica), secondo il principio della pianificazione in due tempi, viene oggi rimandata alla pianificazione di dettaglio.

     Le nuova pianificazione fisica illustra la metamorfosi del  contesto socio-territoriale avvenuta dal dopo-guerra, nel quale era nato il precedente assetto. Il piano non ha più per obiettivo di ordinare la crescita dell’agglomerato urbano, necessità impellente per la crescita demografica e la conseguente richiesta di edilizia residenziale. La sua funzione è di consentire riqualificazione dell’esistente, anche ma non soltanto tramite l’infrastrutturazione ed una adeguata offerta di servizi. Tende prima di tutto a trasmettere alle generazioni future un territorio adatto a consentire una vita armoniosa. Il ragionamento di piano viene quindi invertito: l’azzonamento (cfr. box 4) e il dimensionamento ne rimangono le operazioni fondamentali, ma il punto di partenza sta non nella scelta di aree di espansione, ma nella definizione delle cosiddette invarianti: vale a dire tutti gli elementi, materiali e immateriali che qualificano il territorio. Da quest’analisi dello stato delle risorse da tutelare discendono le ulteriori operazioni di definizione degli orientamenti.

    Box 4 Zoning e azzonamento

     L’azzonamento, vale a dire la delimitazione di aree caratterizzate dalle loro funzioni dominanti e per le quali di conseguenza si definiscono norme per la regolazione dell’uso della proprietà privata, è componente imprescindibile di qualunque procedimento teorico e pratico in urbanistica. Non vi è programmazione dello sviluppo urbano senza individuazione delle aree da tutelare (per il loro valore paesistico, architettonico, storico, sociale), delle aree in cui è conveniente indirizzare l’eventuale edificazione, delle aree destinate ad accogliere gli insediamenti che richiedono particolari condizioni di separatezza (come molte grandi infrastrutture, attività produttive a rischio).

    È quindi un procedimento analitico che, insieme ad altri, viene sempre a comporre l’armamentario dell’intervento pubblico sul territorio.

    Assumere l’azzonamento come strumento principale di questo armamentario e desumerlo innanzitutto da una rigida distinzione tra attività umane – e non soltanto tra ambiti socio-territoriali–: tali sono le caratteristiche di quegli interventi che si ispirano invece alla teoria dello zoning. L’ideologia dello zoning presuppone che il migliorare la funzionalità degli insediamenti e l’accrescere il benessere della popolazione richiedano una stretta separazione fisica tra le attività umane.

    Raggruppare nuclei di attività omogenee opportunamente proporzionate: ciò, si afferma, permette di sfruttare al massimo gli impianti collettivi e gli investimenti pubblici e di garantire ad ognuna delle attività le migliori condizioni di funzionamento. L’approccio porta a distinguere tre tipi fondamentali di zone: residenziali, commerciali e terziarie, industriali. La denuncia dello zoning, che inizia in Europa mentre si realizzano i grandi interventi di edilizia popolare degli anni Sessanta-Settanta, parte proprio dalla descrizione degli effetti di questa rigida separazione tra le zone residenziali e il resto del contesto urbano. L’«area dormitorio» appare dalla sua nascita come area di esclusione (per chi la deve raggiungere faticosamente dopo il lavoro, per chi ci passa la giornata senza l’appoggio di strutturate relazioni sociali, né di servizi pubblici e privati adeguati, e lontano dalla «città»).

    Negli indirizzi nuovi di pianificazione territoriale, gran conto è tenuto poi, con modalità varie, della mobilitazione della popolazione, sotto la veste della comunicazione o della partecipazione. Richiamo ad una definizione soggettiva dell’utilità collettiva da affidare alla popolazione, quindi richiamo alla partecipazione nel disegno e nella valutazione integrata del piano, ma anche richiamo all’interdisciplinarietà sono ulteriori elementi che avvicinano la formazione nuova del piano fisico alla codifica del piano strategico territoriale. Investendo anche – seppure  sempre molto nei proclami e poco nella realtà – la configurazione di professioni che guidano la definizione dei piani, suggerendo più o meno esplicitamente una presenza visibile delle scienze sociali, in particolare dei sociologi nella pianificazione fisica.

    Fig. 4. Gli orientamenti di riforma dello spatial planning italiano

     

     

     

    Nelle sue diverse declinazioni regionali, questo sistema nuovo attribuisce al piano funzioni, contenuti e attori spesso in totale contrasto con quello instaurato dal testo Unico del 1942, che ha modellato fino ad oggi mestieri e mondo dell’urbanistica. Ma è l’intero apparato normativo di governo del territorio e più in generale di programmazione pubblica a trovarsi progressivamente coinvolto in un ampio processo di razionalizzazione e ricostruzione, ancora largamente in fieri. Dopo la definizione, imposta dall’appartenenza all’Unione Europea e del tutto inedita nella storia politico-amministrativa nazionale, di primi indirizzi nazionali di riassetto del territorio (all'occasione della stesura del Quadro Strategico Nazionale emanato a fine di-cembre 2006), il dibattito si è allargato, da una parte allo stesso sistema degli enti locali (dove si ribadisce tra l’altro la necessità di affrontare lo snodo del livello metropolitano di governo), d’altra parte al sistema della pianificazione fisica, oggetto perfino pur senza successo di proposte legislative nazionali di riforma complessiva, nell’intento di recepire e approfondire le trasformazioni già avvenute nelle legislazioni regionali: ciò nella direzione dell’integrazione con la pianificazione socio-economica e della cooperazione tra livelli decisionali: non più quindi mera ‘urbanistica’, ma ‘governo del territorio’.


     

    3. La partecipazione della popolazione alla costruzione dei progetti territoriali


    Le modalità emergenti di pianificazione, che si richiamo, come abbiamo visto, alle teorie della pianificazione "comunicativa", offrono quindi opportunità di espressione alla popolazione interessata. Meri momenti rituali o contributi corposi, la loro efficacia dipende anche dall'efficacia colla quale sono organizzate e dalla loro rispondenza al problema da affronatre e al contesto sociale nel quale si inseriscono.

    L'autoselezione dei partecipanti, disugualmente volenterosi, abituati e capaci è la prima difficoltà che devono affronatre tutti i progetti.  Essenziale per la democraticità e l’efficacia del processo partecipativo è l’attività preliminare di adduzione nell’arena di cittadini che rappresentino le diverse componenti significative della società locale, nonché nelle fasi successive l’incoraggiamento ad esprimersi garantito a chi tra i presenti è meno abituato a prendere la parola in contesti pubblici. La maggiore apertura del processo è garantita da operazioni preparatorie di outreach, attraverso le quali si diffondono informazioni sul progetto partecipativo e si convincono i cittadini a partecipare ma soprattutto dall’estrazione casuale del campione, sulla base di una stratificazione preliminare della popolazione laddove vi siano sufficienti conoscenze sulle variabili significative, o su base totalmente probabilistica.  E’ evidente anche che democraticità ed efficacia sono maggiori quando la consultazione avviene in una fase precoce del processo decisionale,  vale a dire quando i cittadini non possono pensare di essere soltanto formalmente consultati su un progetto comunque già definito ed avviato.

    Le pratiche più solide di consultazione e di partecipazione della popolazione affrontano poi il problema delle disuguaglianze, che continua a porsi nello svolgimento stesso del processo partecipativo, inserendolo in una rigida sequenza di attività temporalmente definite controllata da un facilitatore. Molti dei modelli di riferimento, che tecnicamente si ispirano all’intervista collettiva o al brain storming costituiscono architetture complesse, lungamente collaudate, ideate e sperimentate spesso in altri paesi occidentali, a volte sviluppatesi più particolarmente nel contesto nazionale (Bobbio 2001).

    La partecipazione è fruttuosa se ad un ambiente disteso corrisponde rigore nell’osservanza delle regole, regole chiaramente annunciate e che tendono in primo luogo a dare ad ognuno la stessa capacità di intervenire, e nella gestione dei tempi, affidati al facilitatore.  Queste regole vanno declinate diversamente a seconda dei contesti e dei casi, in particolare del tipo di problema o di progetto, del suo stadio di definizione, nonché  del grado di conflittualità che può già avere suscitato.  Pochi esempi saranno sufficienti ad illustrare, senza pretesa di esaustività,  la varietà di proposte  alle quali si possono oggi ispirare gli enti locali, in particolare  nella trasformazione urbana.

     ■L’EASW (European Awareness Scenario Workshop, è strategia di riflessione di gruppo fondata sulla costruzione di scenari alternativi, ideata in Danimarca per sostenere scelte collettive attente alla salvaguardia ambientale (per ciò è stato nel 1994 adottato dalla Direzione Ambiente della Commissione Europea). Incentra l’attenzione sull’influenza dello sviluppo tecnologico e le sue conseguenze diverse a seconda delle opzioni di politica pubblica. Prevede un laboratorio di circa due giorni nel quale lavorano una trentina di partecipanti, di quattro categorie: politici o amministratori, operatori economici, tecnici e esperti, cittadini. I lavori si articolano in due fasi principali di lavoro in gruppo seguiti ognuno da una discussione plenaria: nella prima ciascuna delle categorie di attori definisce in relazione al tema proposto due possibili scenari futuri, quello catastrofico nel quale si realizzano tutti i rischi immaginabili, quello idilliaco nel quale sono realizzati invece tutti i vantaggi immaginabili. Se ne desumono in discussione plenaria, quattro temi  cruciali, su ognuno dei quali lavora nella seconda fase uno dei quattro gruppi che vengono allora costituiti, e che questa volta includono ognuno attori delle diverse categorie. Ogni gruppo lavora allora ad enucleare idee di intervento sul tema, presentati in una nuova plenaria, nella quale si seleziona in conclusione al processo la rosa delle cinque idee più significative, suscettibili di essere oggetto di progettazione.

    ■L’Action Planning, d’origine anglosassone, anch’esso fondato sul ragionamento dicotomico in scenari, è invece applicabile ad una varietà di situazioni legate alla predisposizione di linee di intervento urbanistico. E’ processo lungo, che include tre o quattro sessioni di lavoro di un giorno su due mesi circa, durante le quali partendo da domande ampie sulla situazione del contesto territoriale, nelle sue dimensioni positive e negative, si precisano poi le previsioni di cambiamento, negative e positive, per arrivare alla definizione individuale di linee-guida adatte a garantire la realizzazione dello scenario positivo ed evitare i rischi di quello negativo. Supporto di espressione privilegiato è il post-it, che consente anonimato e libertà di espressione anche a chi non è abituato ad esprimersi in pubblico, i cui contenuti sono poi confrontati su tabelloni riassuntivi. UN discussione finale consente a partire dalle proposte di linee- guida di definire un piano di azione condiviso.

    ■L’Open Space Technology, di origine statunitense è il modello di processo partecipativo più direttamente ispirato al brain storming, utilizzabile in una vasta gamma di contesti e su molti temi diversi. Consiste in un incontro di una giornata che si struttura il giorno stesso a partire delle dichiarazioni iniziali di interesse dei partecipanti in una serie di tavoli di discussione. Chi propone un tema si impegna a organizzare il tavolo e a rendicontarne i risultati. I partecipanti sono liberi di passare da un tavolo all’altro a seconda dell’interesse o del disinteresse che provano in ognuno, meccanismo in grado di stimolare l’impegno collettivo. Alla fine della giornata sono condivisi i risultati delle discussioni nei tavoli.

    ■Il Planning for Real, ideato in Gran Bretagna, in questo caso per il perfezionamento di progetti di riqualificazione di quartieri, utilizza per stimolare l’espressione un modello tridimensionale dell’area soggetta a trasformazione. Ai partecipanti è chiesto di scegliere tra carte-opzioni rappresentanti possibili azioni  migliorative (infrastrutture, attrezzature…) e di apporle sul plastico, commentando col facilitatore i motivi della loro scelta. Le carte rappresentano interventi la cui fattibilità tecnica e finanziaria è stata verificata dai servizi tecnici dell’amministrazione locale. Ai partecipanti è fornito nello stesso luogo la documentazione utile sull’intervento. Altri supporti di espressione possono essere previsti, come post-it o relazioni scritte.

    ■Le camminate di quartiere sono interviste collettive in movimento, diffusamente utilizzate in molti paesi europei per sostenere operazioni di riqualificazione di diversa natura, nelle quali un gruppo di abitanti (da 10 a 30), scelti perché socialmente rappresentativi della comunità interessata, trasmettono ai professionisti le loro interpretazioni della situazione dei luoghi attraversati ed eventuali suggerimenti di progettazione. Della camminata sono sempre definiti punto di partenza e punto di arrivo; il tracciato può essere predefinito oppure può essere motivo di discussione la scelta del percorso, di modo a meglio comprendere le strategie di evitamento o certe modalità di qualificazione dei luoghi. La camminata si conclude con un momento di confronto finale in cui si riassumono di concerto le osservazioni emerse durante la passeggiata.

    ■Una strategia partecipativa adatta alle fasi finali di progettazione, ma soprattutto alle fasi di cantierizzazione, che non affronta sistematicamente la questione dell’autoselezione dei partecipanti, qui meno pungente per l’estrema localizzazione e quotidianità già assunta del progetto, è quella del punto. Il punto è così denominato in riferimento sia alla struttura fisica, uno sportello per il pubblico collocato in un’area in corso di trasformazione, sia all’attività di bilancio aggiornato sull’avanzare del progetto che vi viene svolta.  Garantisce il contatto durante le fasi di lavoro tra le imprese, il committente pubblico e i cittadini.  E’ strumento di comunicazione dell’ente pubblico, che vi diffonde l’informazione sul progetto e la sua progressione, ma anche un luogo possibile per l’attivazione degli abitanti che vi possono lasciare segnalazioni, richieder incontri, proporre modifiche alle pratiche di realizzazione: l’orientamento è quello di una “direzione sociale” dei lavori.

    ■La formula del laboratorio di quartiere, nata in Italia negli anni Ottanta, è formula diffusa nel contesto nazionale nella riqualificazione dei quartieri o la progettazione di spazi pubblici. Concepita per stimolare la trasmissione agli operatori della riqualificazione delle conoscenze del contesto e delle proprie esigenze, da parte della popolazione (ma anche dei ragazzi delle scuole), si fonda sull’apertura di un luogo dedicato, nel quale si possa per un tempo piuttosto lungo, sviluppare, almeno in tre-quattro incontri un dialogo tra le diverse categorie interessate:  abitanti, progettisti, amministratori, imprese. Gli strumenti utilizzati sono vari: libere discussioni, costruzione di scenari, costruzione di mappe dei bisogni o delle risorse, post-it e tabelloni, lavori a gruppo su particolari temi.  Poiché destinato principalmente, non a suggerire decisioni su base maggioritaria, ma a stimolare l’attaccamento al progetto e ai luoghi da parte degli abitanti (il ché porta spesso anche ad una certa ambiguità della figura del progettista che non di rado agisce anche come mediatore), il laboratorio di quartiere si caratterizza per il rifiuto di qualunque selezione dei partecipanti su criteri di rappresentatività. Efficacia e democraticità del modello sono quindi strettamente legati alle sue capacità di allargarsi ad una parte significativa della popolazione.

    ■ Un’esperienza particolarmente coinvolgente, di difficile gestione amministrativa ma efficace per il livello di partecipazione popolare raggiunto, è quella del bilancio previsionale partecipato di Porto Alegre, ormai diventata un riferimento classico in Italia. Ogni anno le assemblee dei rappresentanti di quartiere di Porto Alegre varano il processo. Nel mese successivo assemblee popolari in ogni quartiere definiscono le priorità di investimento su una quota del bilancio definita dal Comune. I delegati dei quartieri al forum regionale negoziano sulla base delle liste di priorità così definite, per arrivare a un quadro di obiettivi raggiungibili, distinti per settore e circoscrizione.

    ■In alcuni paesi dell’Europa settentrionale e negli Stati Uniti sono state utilizzate in diversi settori di politica pubblica (ad es. i trasporti le «giurie di cittadini»: questi ultimi vengono consultati su temi di interesse generale secondo una distribuzione campionaria che li rende rappresentativi dell’intera popolazione, offrendo loro la possibilità di essere informati da esperti e il tempo di formarsi un’opinione.

     ■ I «sondaggi d’opinione deliberativi», più puntuali, utilizzati per verificare l’adeguatezza di specifiche scelte di politica pubblica, prevedono un accertamento dell’opinione della popolazione a conclusione di un dibattito condotto entro un campione rappresentativo di cittadini [Bobbio 2002].

    ■ Gli strumenti di empowered deliberative democracy prevedono invece una consultazione dei soli stakeholders, cioè di tutti coloro che hanno interessi in gioco (o di quanti li rappresentano). L’ottica è quella della risoluzione negoziale di conflitti su progetti specifici o in aree delimitate di politica pubblica [Bobbio-Zeppettella 1999; Bobbio 1994].