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  • Nonostante le ricorrenti denunce di un presunto declino dell’urbanesimo ma anche della inarrestabile omologazione funzionale e culturale dei territori, si è negli ultimi decenni affermata una nuova «rivoluzione urbana». Nelle cosiddette «città globali» si concentrano le risorse per la direzione del sistema economico mondiale, mentre le mega-città del Terzo Mondo diventano il polo problematico dei difficili processi di modernizzazione dei paesi meno sviluppati; il fenomeno della «diffusione urbana» conferma l’obsolescenza del concetto di città e suscita drastiche revisioni dei modelli di descrizione e di intervento.

    Due citazioni, estratte da manuali di sociologia italiani, illustrano come nel breve intervallo di pochi decenni, nel nostro contesto culturale, il binomio città-campagna, elemento di raccordo tra la sociologia dei fondatori e quella della rinascita nel secondo dopoguerra, sia stato sottoposto a drastica revisione, ma anche come l'interpretazione delle relazioni tra città e mutamento economico e sociale possa variare in pochi anni.

    Alla fine degli anni Settanta città e campagna sono ancora considerate due realtà talmente diverse da consentire molte semplicistiche interpretazioni causali di mutamenti strutturali, come quella proposta nel Dizionario di sociologia:

    L’urbanizzazione ha conseguenze rilevanti e durature in parecchi campi. Non c’è dubbio che essa contribuisca a ridurre, fino eventualmente ad annullarlo, il tasso di incremento della popolazione. Più controverse quanto ad aspetti specifici ed entità, ma altrettanto certe nell’insieme, sono le modificazioni di vari attributi biopsichici della popolazione inurbata; è provato che dopo una o due generazioni essa presenta statura media più alta, eloquio più rapido, pubertà maschile e femminile più precoce e vita media più lunga della popolazione rurale. Gli effetti sulla mobilità sociale sembrano differire a seconda dei paesi e delle epoche [Gallino  1978].

     Negli anni Ottanta diverse ipotesi convergono invece nel delineare un ineluttabile declino per la città e una sua progressiva assimilazione in un conglomerato «rurbanizzato» (cfr. più avanti): inedia demografica delle grandi concentrazioni insediative, erosione delle centralità funzionali, mediatizzazione dei rapporti politici.

    Proprio nei paesi industrializzati avanzati sembra oggi delinearsi un pro- cesso del tutto nuovo: la perdita di rilevanza non soltanto della distinzione tra città e campagna, ma della stessa localizzazione fisica delle attività produttive come del potere politico. In regioni completamente urbanizzate (o quasi), dove la campagna si è trasformata a immagine della città e dove l’assenza di caratteristiche urbane riguarda solo zone scarsamente popolate – foreste, deserti, montagne e via dicendo – non sussiste più la città nel senso tradizionale del termine. La città infatti non possiede più specificità nei confronti del territorio circostante, delle aree rurali non urbanizzate a cui si contrapponeva; e se ancora la possiede, tende a perderla. D’altra parte le industrie e le attività produttive non hanno più bisogno di concentrarsi in determinati luoghi: hanno soltanto bisogno di essere collegate, ma a ciò provvedono le vie di comunicazione e, in misura crescente, le reti informatiche. Anche il potere politico, pur rimanendo localizzato in istituzioni che hanno sede nelle capitali e nelle altre città, pur traendo da questa localizzazione parte del suo residuo significato simbolico, non riveste più un carattere specificamente urbano. I mezzi di comunicazione di massa hanno sostituito il rapporto diretto tra la classe politica e il resto della popolazione, l’intervista televisiva ha preso il posto del comizio o dell’adunata; mentre l’informatica provvede alla raccolta e alla trasmissione dei dati necessari al funzionamento dell’apparato amministrativo. La città sta così cessando di essere il luogo del potere non già perché si sia trasferito altrove, ma perché il potere non richiede più un centro fisico in cui insediarsi e da cui espandersi [Ceri-Rossi 1987, 580-581].


    Negli anni Novanta si impone, in sociologia a partire dai lavori seminali di Saskia Sassen sulla "città globale", una contrapposta immagine di mondo globalizzato assai gerarchizzato. Le città sono di nuovo nell'immaginario popolare percepite come i potenti "centri" del mondo globale.

    Così descrive Sassen l'avvento della "città globale":

    "Una combinazione di dispersione spaziale e di integrazione globale ha creato un nuovo ruolo strategico per le maggiori città. Superando il loro ruolo storico di centri per il commercio internazionale e l’attività bancaria, queste città oggi ricoprono funzioni centrali sotto quattro ulteriori aspetti: come luoghi di potere altamente concentrato nell’organizzazione dell’economia mondiale; come localizzazioni chiave delle imprese di servizio specializzato e delle attività finanziarie; come luoghi della produzione, inclusa la produzione di innovazioni, in questi settori di punta; come mercati per i prodotti e le innovazioni prodotte [...]. Tali mutamenti nel funzionamento delle città hanno un impatto massiccio sull’attività economica internazionale e sulla forma urbana. Le città concentrano il controllo su vaste risorse, mentre la finanza e le attività di servizio specializzate hanno ristrutturato l’ordine urbano, sociale ed economico. Un nuovo tipo di città è quindi comparso. È la città globale [1991, 3-4]".

    Nei lavori della Sassen (i primi lavori sul settore informale a New York e Los Angeles tra il 1984 e il 1987, quello sulla mobilità del lavoro nelle città del 1988, la loro summa intitolata Global Cities, 1991) viene progressivamente precisato il modello sociologico corrispondente a questa posizione egemonica nell'economia globale. Alla struttura produttiva tipica di queste forme urbane – dominata dai servizi, finanziari e manageriali in primo luogo, piuttosto che dalla produzione manifatturiera – corrisponderebbe una inarrestabile polarizzazione sociale. Da una parte le città globali vedono crescere il numero dei fornitori di servizi, dei liberi professionisti e dei manager attivi in questi settori; dall’altra la struttura industriale tradizionale perde la sua vitalità, e decresce in particolare la parte di manodopera operaia qualificata che ne era risorsa fondamentale.

    Negli ultimi decenni si è fatto ricorso ad una vasta gamma di concetti per descrivere le trasformazioni dei sistemi urbani nonché delle relazioni tra territori. Di matrice disciplinare assai diversa, quasi tutti sono diventati di uso corrente nella pubblicistica, perdendo spesso le loro precise e diversificate connotazioni originali, connotazioni tutte utili invece nella descrizione sociologica.

    Una breve messa a punto terminologica e storica è quindi necessaria, partendo dalla nozione di globalizzazione.


    1. Globalizzazione e sistemi urbani

    1.1 Interdipendenza, sistema-mondo, globalizzazione
    Affrontando il tema della globalizzazione, non è infrequente trovarsi davanti alla questione preliminare riguardante l’effettiva sussistenza del fenomeno. Da più parti, infatti, emergono dubbi sulla novità del processo, sul suo corso effettivo, sul rischio di una sua mitologizzazione; e si fa largo il dubbio che «globalizzazione» sia null’altro che un nome nuovo conferito a processi già esistenti. Il rischio è che «globalizzazione » sia soltanto una di quelle «categorie narrative» che a partire da un certo momento si impongono nel discorso pubblico e assumono una posizione strategica pur in assenza di una rigorosa definizione. Di ciò si è detto pressoché sicuro Alain Touraine, il quale ha parlato di un’ideologia della globalizzazione [1996], a lasciar intendere che non si tratti di un processo concreto, quanto piuttosto di una «grande suggestione».  Per alcuni, la globalizzazione è progetto politico, neoliberale (Ohmae 1992, Chomsky 2002, Bourdieu 1998), movimenti come il Forum Internazionale sulla Globalizzazione si dichiarano in fase iniziale come movimenti anti-globalizzazione, prima di cercare modalità alternative di gestione dei fenomeni compresi sotto il termine (Held 2002).


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    Consensi e controversie relative alla Globalizzazione

     Consensi

    -          La globalizzazione è modellata dal mutamento tecnologico

    -          Involve la riconfigurazione degli Stati

    -          Si accompagna a modalità di regionalizzazione

    -          E’ irregolare

     

    Controversie

    -        La globalizzazione è essenzialmente economica o multidimensionale?

    -          Che cos’è “globalizzazione”?

    -          E’ un processo recente o un processo storico di lunga durata?

    -          Esiste  o è retorica, “globaloney”?

    -          E’ capitalismo neoliberale?

    -          Si può gestire la globalizzazione?

    (da Nederveen Piterse J. , 2004, p.8)

    Più diffuso e condiviso è l’interrogativo sui processi principali che fanno oggi da motore alla intensa interdipendenza di regioni del mondo anche distanti tra di loro, economici, politici, o culturali.

    L’opinione maggioritaria al cambiare del secolo era quella che assegna agli interessi economici il ruolo di elemento trainante della globalizzazione; sempre più accreditata tuttavia è anche la versione che assegna un peso strategico alla crescente integrazione comunicativa del pianeta.

    Estremamente variegata, infine, la gamma delle conseguenze che ai processi di globalizzazione viene ascritta: conseguenze di tipo culturale, giuridico, politico, militare.

    Cos’avrebbero dunque di così diverso i processi di globalizzazione, rispetto ad analoghi fenomeni di interdipendenza, da richiedere una nuova etichetta per qualificarli? L’elemento da rimarcare è la differenza fra il concetto di «globale» e altri concetti usati per indicare un assetto delle relazioni fra il tutto e le parti, e fra le singole parti che hanno caratterizzato il vocabolario delle scienze sociali.  È il termine anglosassone di globalization ad imporsi rapidamente nel dibattito internazionale ed a quello si rifà il dibattito italiano.  È da notare però che non in tutti i contesti linguistici si ricorre ad una sua traduzione letterale: i sociologi francofoni usano il termine di mondialisation, perdendo così, come vedremo, qualche ulteriore possibilità di distinzione semantica.

    Per illustrare nel modo migliore questa mutazione concettuale è utile costruire una coppia dicotomica che aiuti a collocare efficacemente il concetto di globale. Nel caso di «globale», il concetto di riferimento per la costituzione della dicotomia è «locale». Fissato un termine di contrapposizione, risulta più agevole delineare i contenuti del concetto di «globale», e individuare le differenze fra tale concetto e altri concetti che sono stati equiparati ad esso senza però esserne sinonimi.

    * Sul piano dei contenuti, con il concetto di «globale» si indica un modello di relazioni fra attori, funzioni e processi che supera i vincoli di fedeltà politico-territoriali tradizionali per inaugurarne di alternativi. I modelli tradizionali di fedeltà sono quelli collegati alle filiere territoriali che si snodano a partire dallo stato-nazione: nel caso italiano, tale filiera è formata in sequenza da stato centrale, regione, provincia, comune, più quelle realtà territoriali intermedie fra le ultime due (come, per esempio, le comunità montane). Questo assetto di sistema comporta che ogni attore (un’azienda, un governo locale, un cartello di imprese), processo (ricerca di alleanze, conduzione di conflitti, negoziazione) e funzione (comunicazione, produzione, allocazione) compresi nella filiera rispondano a un rigido vincolo gerarchico che assicura una rigida appartenenza istituzionale, politica e culturale, con subordinazione di ogni livello inferiore a quelli superiori. Viceversa, un assetto di sistema globale consente ad attori, processi e funzioni di by-passare la filiera delle fedeltà tradizionali per cercare un nuovo equilibrio al di fuori di quello gerarchicamente garantito dallo stato-nazione. Tale nuovo equilibrio viene raggiunto seguendo alternative ritenute maggiormente vantaggiose rispetto a quelle fissate dai vincoli gerarchici tradizionali. L’esistenza di un livello «globale» dei processi presuppone un simmetrico livello «locale». Quest’ultimo è il piano concreto nel quale attori, processi e funzioni applicano strategie e indirizzi definiti secondo una logica globale. La peculiarità del «locale», anche in questo caso, è quella di connettersi al livello globale by-passando i vincoli di fedeltà e la filiera istituzionale-territoriale che fa capo a uno stato-nazione.

    Il rapporto globale/locale è dunque caratterizzato da un grado molto basso di relazione gerarchica fra i due termini e i fenomeni che essi etichettano. Questo elemento di «de-gerarchizzazione» marca una chiara differenza fra il concetto di «globale» e altri erroneamente indicati come sinonimi.

    Uno di questi è il concetto di «centro», inteso come grado di massima concentrazione di processi e funzioni di un sistema di relazioni. Il termine di riferimento per la costruzione di una dicotomia è in questo caso quello di «periferia»: che rappresenta un livello di bassa autonomia nelle scelte strategiche, e di alta dipendenza dal livello centrale per l’attribuzione delle risorse. Il «centro» è dunque il luogo collettore di risorse, poteri, strategie per la regolazione dei bisogni che si presentino ai livelli periferici del sistema. Il modello di regolazione che in questo caso viene adottato ha natura spiccatamente gerarchica.

    Quello tra centro e periferia, secondo una classica lezione politologica [Rokkan 1970], è uno dei cleavages decisivi per la formazione dei sistemi politici moderni. Ma la vitalità di questa dicotomia nelle scienze sociali è dovuta anche, come ha mostrato in modo approfondito Edward Shils [1961], alla forza analitica che essa offre nello studio delle strutture e dei processi sociali, indipendentemente dal loro ancoraggio concreto a un riferimento territoriale. Secondo questo approccio, un sistema ha non soltanto un centro territoriale immediatamente riconoscibile, ma anche:

    – un centro di potere, che gode del primato nell’individuazione degli scopi da perseguire nel sistema e nella scelta delle apposite strategie;

    – un centro funzionale, che gestisce i processi e la distribuzione delle risorse verso la periferia;

    – un centro simbolico, che organizza e amministra i significati all’interno del sistema;

    – un centro valoriale (il cosiddetto «sistema centrale di valori», secondo la definizione di Shils), che definisce quanto è giusto o sbagliato, lecito o illecito, auspicabile o deprecabile.

    Rispetto alla dicotomia globale/locale, quella centro/periferia mostra una netta asimmetria. Il rapporto tra centro e periferia è quello fra «uno e molti»; mentre quello fra globale e locale è fra «molti interconnessi». Inoltre, nelle relazioni di tipo globale esiste la possibilità che si costituiscano diversi «centri» per necessità esclusivamente funzionali e per un breve-medio periodo, fino all’esaurimento di quella specifica funzione che ne aveva motivato la formazione.

    Questo carattere «policentrico» della relazione globale/locale segna dunque un tratto differenziale rispetto alla relazione centro/periferia, che viceversa presenta un carattere «monocentrico». La presenza di diversi centri, rispetto all’unico che coordina una pluralità di periferie, fa sì che i primi siano «centri direzionali», al contrario del secondo che è «centro strutturale». I centri direzionali sono snodi sui quali convergono attività e funzioni, in vista di un’ottimizzazione delle risorse e delle possibilità; viceversa, i centri strutturali assumono un primato nella definizione delle strategie generali, nell’attribuzione delle priorità e nell’assegnazione dei compiti. La relazione globale/locale può essere applicata all’analisi di una gamma di oggetti e fenomeni molto vasta [Perulli 1993], che faccia comunque riferimento alla nozione di sistemi complessi e integrati. La sua principale caratteristica è quella di portare alla costante messa in discussione degli equilibri maturati.

    *Un altro concetto messo in rapporto con «globale» è quello di «mondiale », che si riferisce a una specifica dimensione geo-politica. Quando si parla di «mondiale», i riferimenti forti sono lo stato-nazione e i suoi confini. Strettamente legato, da un punto di vista semantico, al concetto di «mondiale» è quello di «internazionale», che designa infatti un criterio delle relazioni fra territori nel quale i confini assolvono una funzione cardine.

    La differenza che passa fra mondiale (o internazionale) e globale fa capo a due diverse logiche di integrazione. Un assetto mondiale si basa su una logica di integrazione che assegna alle fedeltà statali-nazionali un primato assoluto, e fa dunque dello stato-nazione il principale criterio di alignement; viceversa, un assetto globale prevede che attori e processi si integrino seguendo la logica della piena autonomia e della capacità negoziale. Il dato più significativo nel passaggio a una logica di integrazione globale è la progressiva evanescenza e perdita di imperatività da parte delle fedeltà statali-nazionali.

    Nel complesso, il concetto di «globale» (nella relazione con quello di «locale») designa un livello, sia analitico sia empirico, in cui assume peso determinante una logica di «configurazione», da intendersi come capacità di rinegoziare continuamente gli equilibri necessari e sufficienti di una situazione in costante evoluzione.

    Se i concetti di «centro» (nel suo rapporto con la periferia) e di «mondiale » (come orizzonte dello stato-nazione e delle relazioni internazionali) rimandano a equilibri di sistema statici e scarsamente revisionabili, l’idea di «globale» (nel suo rapporto col «locale») scommette sul continuo negoziato per l’aggiornamento di equilibri che, viceversa, sono equilibri di processo, soggetti a ripensamenti e adeguamenti successivi.

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    Mondializzazione e globalizzazione

    Un esempio di differenza fra mondializzazione e globalizzazione può essere quello della diffusione mondiale dell’automobile come mezzo di locomozione che in breve tempo si trasforma in oggetto di consumo e stile di vita.

    La mondializzazione dell’automobile si ha quando la produzione industriale nel settore, unita allo sviluppo delle condizioni infrastrutturali, consente ai manufatti (le automobili) di raggiungere i mercati di ogni parte del pianeta.

    In questo assetto di sistema la produzione è fortemente centralizzata, il prodotto risponde a logiche standard di progettazione, e la sua diffusione segue un percorso top-down (dall’alto in basso). Viceversa, si ha una globalizzazione dell’automobile come fenomeno di consumo e stile di vita quando la produzione dei manufatti viene frazionata all’interno di unità produttive che possono essere dislocate in territori fra loro molto distanti (anche in stati-nazione diversi), e quando linee di produzione specifiche vengono deputate allo sviluppo di manufatti da piazzare su mercati specifici (un esempio è dato dalla Fiat, che produce modelli di automobile soltanto per il mercato sudamericano).

     Al centro della distinzione fra mondializzazione (o internazionalizzazione) e globalizzazione sta, secondo molti studiosi, il ruolo dello stato-nazione. Il periodo di massima salute di quest’ultimo come struttura cardine dei processi politici, economici e istituzionali ha prodotto, attraverso il fenomeno della «mondializzazione», il sistema delle relazioni internazionali, regolato dalle diplomazie, dai vincoli protezionistici e dalle barriere doganali. Lo scarto che intercorre fra «mondializzazione » e «globalizzazione» segna, in questa prospettiva, l’instaurarsi di una diversa qualità dell’equilibrio, con la perdita del ruolo centrale dello stato-nazione e un diverso rapporto tra i singoli attori, i territori e le rispettive sovranità.

     

    Che si parli di mondializzazione-internazionalizzazione o di globalizzazione, la maggior parte degli studiosi a lungo concentra l’attenzione sulla dimensione economica.

    Immanuel Wallerstein ha elaborato la teoria del «sistema-mondo» nella sua trilogia sul «sistema mondiale dell’economia moderna» [1974-89]. L’autore sostiene che, in una determinata fase storica che coincide con il XVI secolo, lo sviluppo dei mercati locali nei paesi dell’Europa occidentale porta i commerci a cercare ulteriori spazi di diffusione seguendo una «linea di minor resistenza». Viene così a crearsi un sistema integrato di relazioni economiche la cui diffusione copre progressivamente l’intero spazio planetario. Wallerstein parla di «sistema» perché le diverse aree economico-territoriali, facenti capo a una sovranità nazionale e delimitate da confini ben distinguibili, sono implicate in una divisione internazionale del lavoro fra zone centrali e zone periferiche.

    L’assetto descritto da Wallerstein disegna una situazione dei rapporti di interconnessione fra le economie locali che, come si accennava più sopra, prevede un ruolo di perno per gli stati-nazione: è attorno a questo ruolo strategico che i commerci e i mercati prendono forma, secondo uno schema che bilancia politiche liberoscambiste e protezioniste, di dinamizzazione e di ostacolo.

     Negli anni Novanta, la ricerca economica tende similmente a mettere in rilievo il peso degli Stati-Nazione nel determinare i nuovi equilibri globali. È il caso nell’indagine comparata dell’economista Michael E. Porter, che lo porta a teorizzare il «vantaggio competitivo delle nazioni» [1990] come insieme delle condizioni che un assetto istituzionale-territoriale nazionale garantisce agli attori economici. Un vantaggio competitivo su base nazionale sarebbe, secondo questa analisi, non soltanto il risultato di misure protezionistiche e di tutela degli attori economici da parte dello stato-nazione, ma anche la conseguenza della particolare architettura politica, economica e istituzionale che si realizza a partire dalle peculiarità del territorio e delle culture nazionali. Certo, lo stesso studio di Porter sottolinea la presenza, all’interno di ciascuno stato-nazione, di regioni più dinamiche di altre, che assumono un ruolo trainante per la prestazione complessiva dell’economia nazionale. Interrogandosi sulla persistenza dello stato-nazione come attore decisivo dei processi politico-economici, Porter tuttavia ribadisce che anche in presenza di forti identità politico-economiche subnazionali e di spiccati dinamismi regionali, il «vantaggio competitivo» strutturato attorno al centro statale ha l’effetto di disinnescare le tentazioni particolaristiche.

    Altri studiosi, già negli stessi anni, vedono la globalizzazione come un processo di lungo periodo che non si limita all’aspetto meramente economico.

    Secondo Roland Robertson [1992], esso si sviluppa a partire da variabili di diversa natura e in un arco di tempo che per ampiezza ricalca grosso modo quello indicato da Wallerstein. Robertson individua cinque fasi della globalizzazione.

    – La prima fase (che si sviluppa fra il XVI e il XVIII secolo) è quella che viene definita «germinale»: essa registra il tramonto del transnazionalismo medievale e l’affermazione delle comunità nazionali.

    – La seconda fase (che si concentra fra il XVIII secolo e il 1870) è quella della globalizzazione «incipiente»: in essa, superato il periodo di strutturazione degli stati-nazione, si articola un sistema di relazioni internazionali.

    – La terza fase (concentrata fra il 1870 e gli anni Venti del XX secolo) è quella del «decollo»: essa registra un’aperta conflittualità fra stati su scala mondiale, per la costruzione di un nuovo equilibrio geopolitico basato sulla forza.

    – La quarta fase (fra gli anni Venti e i Sessanta del XX secolo) è quella della «lotta per l’egemonia»: in essa si ha la divisione del mondo in due blocchi e la realizzazione di un difficile equilibrio di conflitto e controllo reciproco fra le due superpotenze.

    – La quinta e attuale fase, infine, è quella dell’«incertezza»: in essa si registra la perdita di riferimenti geo-politici, economici e culturali certi.



     1.2. Flussi culturali globali e contesti di ricezione

     Un altro aspetto di grande rilievo per la lettura dei processi di globalizzazione è quello relativo ai flussi di comunicazione e alla progressiva copertura telematica del pianeta.

    L’idea di «villaggio globale» proposta da Marshall McLuhan [1989] ha posto le premesse teoriche e simboliche per l’analisi di un mondo in cui le informazioni si muovono in circuiti sempre più integrati. L’espansione delle reti comunicative ha fatto sì che la circolazione e la disponibilità delle informazioni siano immediate e costanti. Un mutamento così profondo ha prodotto conseguenze di carattere non soltanto tecnologico o informativo: molte cose sono cambiate anche nelle culture locali e nel loro rapporto col mondo esterno. L’esposizione di queste culture ai flussi comunicativi internazionali, favorendo un contatto accentuato fra stereotipi, immagini precostituite, narrazioni, ha posto le condizioni per il sorgere di un fenomeno che è stato definito «creolizzazione » [Hannerz 1992], intesa come ibridazione delle identità locali e dei relativi contenuti. L’accentuato scambio di contenuti culturali ha fatto emergere il problema della diversa «potenza di fuoco» tecnologica che le singole culture possono far valere. Su questo versante si apre la tematica del cosiddetto «imperialismo culturale» [Tomlinson 1991], ovvero l’influenza generalizzata di una o poche culture su tutte le altre, in ragione di una maggiore potenza economica e tecnologica. Ciò avverrebbe con la diffusione, da parte della superpotenza superstite (gli Stati Uniti d’America), di tecniche di dominio globale come la «persuasione comunicativa » (il soft power di cui parlano Nye e Owens [Nye 1990; Nye-Owens 1996]) o la crescente standardizzazione delle pratiche e degli stili di  vita e di consumo, ben riassunta dal concetto di «mcdonaldizzazione» [Ritzer 1996; 1999]. Tale prospettiva è contestata da autori che preferiscono sottolineare l’importanza dei «contesti di ricezione» [Thompson 1995; Lash-Urry 1994] nell’elaborazione delle informazioni provenienti dalle «grandi centrali comunicative». Allo stesso modo, il già citato Robertson indica nell’«appropriabilità» (come inclinazione a essere mutuate e rielaborate secondo codici locali) una delle caratteristiche essenziali delle istituzioni globali.

    La “teoria dei flussi culturali globali” proposta da Appadurai in Modernity at Large (1996) attribuisce all’individuo migrante un ruolo di protagonista nella costruzione di questi contesti culturali pur nella cornice costrittiva di affermazione del “capitalismo cognitivo-finanziario”.  Dall’insieme di flussi di persone (ethnoscapes), di simboli (mediascapes), di tecnologie (technoscapes), di idee (ideoscapes), l’individuo seleziona le componenti a partire dalle quali struttura la sua esperienza.  Ed è proprio partendo dalla riflessione sulla migrazione che alla fine del secolo si aprono nuove strade nella riflessione sulla globalizzazione.

    La globalizzazione è conseguenza della modernizzazione, afferma Giddens (1990). Storici ed antropologi denunciano proprio questa associazione. Per comprendere i fenomeni attuali di intensificazione dei contatti tra uomini e culture, è necessario, affermano, adottare invece una visione temporale più ampia:

    Tale sensibilità storica è profondamente diversa dalla visione eurocentrica che attribuisce l’unificazione umana principalmente ai viaggi della modernità. Se l’integrazione globale è  primariamente un fenomeno moderno, allora appartiene alla catena storica di viaggi europei di esplorazione seguiti da espansione, imperialismo, colonialismo e decolonizzazione […] Questa visione si accompagna ad una retorica di profondo sciovinismo occidentale, e generalmente, di pessimismo […]. Contestualizzare le modernità significa ritrovare la nostra storia collettiva di migrazioni dimenticate e di percorsi di identità che collegano il pianeta (Nederveen Pieterse 2004, 26).

    Non si contesta qui l’esistenza stessa del fenomeno “globalizzazione”, ma vi si vede l’intensificazione di fenomeni di integrazione globale che, pur con varie modalità, hanno sempre segnato la storia dell’umanità.

    Per analizzare i fenomeni migratori internazionali e il loro impatto contemporaneo sul significato delle frontiere, in politica e nelle scienze sociali, partendo dall’antropologia anglo-sassone (Glick Schiller, Basch, Szanton-Blanc 1992, Portes, Guarnizo, Landolt 1999), si sta così imponendo un approccio ai mutamenti sociali globali che recupera il termine di “transnazionale” e muta lo sguardo sociologico sulla “globalizzazione” e sulla costruzione delle strutture sociali.  Esso mette in rilievo la capacità di azione del migrante ed i mutamenti culturali ed istituzionali di cui è portatore.


    2. Urbanizzazione ed urbanesimo

    Le “città” del mondo globale sono il prodotto di processi di trasformazione socio-territoriale per cui, nella tradizione sociologica, vengono usati, con connotati specifici, termini per altro di largo uso, sui quali è quindi necessario  fermarsi preliminarmente.

    - Concetto di riferimento basilare per quanto attiene ai processi di trasformazione territoriale è quello di «inurbamento», con il quale si indica la migrazione di popolazione dalle campagne alle città. È utilizzabile per descrivere gli spostamenti di massa, l’esodo di proletariato dalle fattorie alle fabbriche della rivoluzione industriale europea nel XIX secolo, ma anche la persistente concentrazione di popolazione nelle mega-città del Terzo Mondo, o movimenti di popolazione di minor entità come l’insediamento dei ceti aristocratici nelle città di corte oppure il ritorno alla città dei ceti benestanti nel quadro di processi di imborghesimento (gentrification) di alcuni suoi quartieri.

    - L’inurbamento delle popolazioni ha per conseguenza strutturale l’«urbanizzazione», vale a dire l’aumento della quota di popolazione che vive in città. Nel processo di urbanizzazione si usa distinguere una componente primaria e una componente secondaria.

    - «Urbanizzazione primaria» è detta quell’urbanizzazione provocata dal consolidamento economico della città e dalla conseguente offerta di posti di lavoro, che corrisponde ad esempio all’affermazione della città come centro industriale o come centro amministrativo. Un’urbanizzazione primaria sostenuta si rileva ad esempio nell’Italia dell’ultimo dopoguerra con l’affermazione del «triangolo industriale», ma anche nell’espansione urbana sotto la spinta della crescita dell’amministrazione e dei servizi nella Napoli del Settecento.

    - L’«urbanizzazione secondaria» avviene, invece, di riflesso, o comunque senza corrispondere ad una crescita significativa della capacità dell’insieme urbano di produrre ricchezza economica: è  quella  delle città meridionali degli anni Sessanta, che spesso funzionano come tappe nell’esilio delle popolazioni rurali verso la città settentrionale, ma diventano anche non di rado luoghi di insediamento stabile; è  quella tipica dei paesi sottosviluppati, nei quali la città rimane, secondo l’immagine ormai classica, il barattolo di miele verso il quale si precipitano i più disperati.

    - Con il termine di «de-urbanizzazione» o quello, coniato da Berry [1976] di «contro-urbanizzazione» si descrive negli anni Settanta un movimento di abbandono delle città osservato prima negli Stati Uniti e che si suppone doversi progressivamente estendere alle città europee; sarebbe fattore ed effetto, secondo alcune interpretazioni radicali, di un vero e proprio fenomeno di de-urbanesimo, vale a dire di abbandono non solo delle città, ma anche dello stile di vita urbano.

    - Gli studi comparati condotti alla fine degli anni Settanta suggerivano che la crescita demografica si distribuisse anche in Europa secondo uno schema denominato negli Stati Uniti «Downwards, Outwards, Across», vale a dire dal più grande al più piccolo, dal centro all’esterno, dal vecchio al nuovo. Hall e Hay [1980] sulla base dei dati dei censimenti dal 1950 al 1971, e quindi Cheshire e Hay [1989] sulla base di dati del 1980, descrivono secondo questo schema l’evoluzione demografica delle Functional Urban Regions europee (insiemi urbani metropolitani definiti sulla base di criteri strutturali e funzionali, concetto ancora di riferimento nella statistica pubblica di molti paesi. Si supponeva allora che le aree metropolitane fossero entrate in una fase di decentramento con contrazione tappa finale di un processo plurisecolare, durante la quale la crescita della cintura non fosse sufficiente per compensare la perdita di vitalità del centro, e nella quale, quindi, si contrae demograficamente tutta l’area metropolitana. Tendenze già attive nella fase precedente si sarebbero approfondite: la gentrification (imborghesimento) del centro si sarebbe associata al declino economico-strutturale nel provocare emigrazione dall’intera area.

    L’ipotesi del declino urbano trova riscontri concreti negli anni Settanta nella striscia urbana europea di più antica industrializzazione, che va da Genova a Torino per poi attraversare la Francia dell’Est e del Nord, la Saar e la Ruhr, il Belgio, le Midlands, il Nord-Ovest e il Nord- Est dell’Inghilterra, Glasgow e Belfast, aree nelle quali la perdita di vitalità demografica veniva interpretata come effetto di una insufficiente compensazione della contrazione del settore manifatturiero con l’espansione del terziario [Cheshire-Hay 1989]. Quell’ipotesi, però, si scontra visibilmente dagli anni Ottanta con molti andamenti demografici.

    Altri termini sembrano allora più adatti per descrivere i fenomeni in atto, come ad esempio quello di «ex urbanizzazione». È il termine generico che meglio permette di evocare la trasformazione socio-territoriale che investe gli insiemi urbani con la diffusione di strade e automobili, consistente in una espansione fisica della città e nella tendenza dei cittadini a vivere in aree residenziali situate all’esterno di essa, pur mantenendo uno stile di vita urbano: una situazione, quindi, nella quale continua ad affermarsi l’urbanesimo, pur venendo meno l’urbanizzazione. Questa tendenza di trasformazione, con diversi momenti di accelerazione e con diversa intensità, segna la storia recente di realtà urbane per altro assai diverse, e collocate in diverse regioni del mondo.


     -  La «suburbanizzazione» è la paradossale conseguenza dell’ex urbanizzazione, che porta alla perdita di ogni base economica propria da parte degli insediamenti rurali e alla loro trasformazione in aree residenziali della città. La campagna diventa sobborgo, periferia.

    - La stessa accentuazione del fenomeno non porta all’affermazione incontrastata dell’urbanesimo, ma ad un’inversione di tendenza culturale tratteggiata attraverso il neologismo di “rurbanizzazione”. Con ciò si intende la costituzione di nuovi stili di vita e di nuovi modelli di uso del suolo. L’intensificazione degli scambi di valori, modelli e culture tra città e campagna fa sì che, mentre nella campagna si adottano i modelli cognitivi della vita della città, nelle aree urbane si reintroducono pezzi di cultura rurale, con una maggiore attenzione per le aree «verdi», nuovi modelli di edilizia residenziale ispirati alla vita rurale e più recentemente alle prospettive dell’attività e della cultura agricola in seno alle aree centrali delle città.

    La crescita del movimento globale, politico ed architettonico, a sostegno dell’”agricoltura urbana” è  infatti la più chiara illustrazione di questa riconciliazione culturale tra città e campagna che accomuna Nord e Sud del mondo. Agricoltura urbana, nella definizione della Food and Agricultural Organization delle Nazioni Unite  è  “industria che produce, trasforma e distribuisce cibo ed energia, in buona parte in risposta alla domanda quotidiana dei consumatori in una città o metropoli, su terra e acqua diffusa nell’area urbana e peri-urbana, impiegando metodi di produzione intensiva, utilizzando e riciclando  risorse naturali e rifiuti urbani per nutrire una varietà di animali e piante”.  Ma non è solo destinata a produrre ulteriori risorse alimentari vicino ai luoghi di vendita, quindi una fonte di possibili profitti che interessa i giganti dell’industria alimentare; è strumento per risanare l’ambiente urbano consentendo maggiore assorbimento di CO2 e polverini fini, riduzione del rumore, riuso di terreni vuoti di cui si evita la contaminazione; per migliorare controllo e sicurezza alimentare riducendo nel contempo il consumo di energia per il trasporto degli alimenti; per cambiare il paesaggio urbano introducendo varietà di vedute significative di ambienti tradizionalmente esterni alla città, mentre offre nuove attività per il tempo libero, opportunità educative e di incontro.  Al di là dei sempre più numerosi segni architetturali attribuibili al singolo progettista, la dimensione collettiva dell’uso è infatti spesso esaltata nelle esperienze europee, che prendano la forma delle coltivazioni condominiali sui tetti, degli orti sociali, delle aree pubbliche di raccolta e di didattica della coltivazione.

    Intensiva e non controllata l’ex-urbanizzazione in molte città del mondo, megacittà o città minori, porta alla costituzione di varie aree di “sprawl city”. Il termine è spesso tradotto in italiano con quello di “città diffusa”. Una traduzione poco soddisfacente poiché il termine inglese è ben più denso di significati. “To sprawl” significa, oltre che estendersi, anche sdraiarsi, sparapanzarsi. William Draper usa per primo l’accezione di sprawl city nel 1937, appunto per sostenere il progetto di affermazione del city planning come disciplina necessaria a contrastare gli effetti nefasti dell’espansione disordinata delle città americane del Sud-Est nelle quali si trovava a lavorare. Tale forma di diffusione urbana (forse il termine di dispersione è giù più adeguato ad evocarla) si verifica negli Stati Uniti dagli anni Trenta, ben prima di affermarsi, con modalità e intensità tuttavia diverse, in molte città del mondo, sviluppato o in via di sviluppo. E’ il momento della storia urbana descritto da Mumford ne La cultura delle città (1938) quando evoca la fuga dalla metropoli verso le periferie nelle città occidentali, prima della seconda guerra mondiale: insiste sul declino della vita civica nei villaggi  inglobati dalle escrescenze urbane legandolo all’affermarsi di una cultura nuova, quella di “Suburbia”, per cui “gli abitanti delle zone rurali sono educati a disprezzare la loro storia locale” (2007,220).

    A seconda dei contesti territoriali preesistenti tale ex-urbanizzazione massiccia, legata spesso al potenziamento dei sistemi di trasporto pubblico e all’accesso universale all’utilizzo dei mezzi motorizzati individuali di trasporto, o semplice espressione dell’inurbamento di massa negli slum, assume forme diverse, ma anche caratteri uniformi alla base di denunce ricorrenti similmente fondate.

    L’idea è quella dell’esistenza di qualche effetto-soglia per cui in qualche fase della storia dei territori la diffusione diventi vera e propria dispersione, rendendone illeggibile la struttura, e la città appaia nelle sue ampie frange come insieme di edifici privo di identità riconoscibile e non riconducibile alla centralità preesistente della città storica. Un insieme nel quale sparisce lo spazio pubblico e si indebolisce l'"urbanesimo".


    - Suburbanizzazione, rurbanizzazione si riferiscono, per segnalare i contrasti avvenuti,  ad una nozione fondativa  della sociologia urbana, quella di “urbanesimo”, efficacemente codificata da Louis Wirth nel 1928, in un breve saggio intitolato “Urbanesimo come modo di vita”, ma che sottende tutta l’analisi classica della città. La tesi che, al di là delle differenze di approccio teorico, accomuna i fondatori della disciplina quando leggono la modernizzazione nelle trasformazioni territoriali, è quella di una rottura delle strutture sociali tradizionali consentita proprio dalla fuga in città che porta all’affermazione di una nuova cultura “urbana”, di cui individuano diversamente i fattori ma che convergono nel sottolinearne la capacità rivoluzionaria.  Citiamo ad esempio l’interpretazione dell’”urbanesimo” in Weber, nella sua attenzione per le dimensioni organizzative e politiche,  quando elabora il tipo ideale di «comune cittadino», una interpretazione che, come vedremo torna a costituire un riferimento importante nell’analisi delle città come arene politiche. Enfatizzare tale dimensione politica dell’urbano significa difatti tornare ad una interpretazione più ricca e classica della disciplina.

    Al di là delle diversità di impostazione, se vi è comune denominatore nell’analisi sociologica classica della città moderna, preannunciata secondo Weber dal comune medievale, esso risiede comunque nei concetti di complessità sociale e creatività normativa. Wirth, meglio di altri, è riuscito qualche decennio più tardi a sintetizzare una definizione di urbanesimo diventata luogo comune della sociologia dei territori: la città è un «insediamento relativamente grande, denso e permanente di individui socialmente eterogenei» [Wirth 1938]. Il numero stesso degli abitanti, in questa prospettiva, ha per conseguenza la segmentazione delle relazioni umane; l’intensità forzata dei contatti fisici nella residenza e nel lavoro si accompagna alla predominanza della comunicazione indiretta. L’eterogeneità porta, insiste Wirth secondo la tradizione della Scuola Ecologica di Chicago, a segregazione socio-spaziale, mentre alla solidarietà della comunità rurale subentra la competizione, ma anche l’integrazione tramite la routine e il controllo formalizzato tipico dell’insieme urbano.

    Contrariamente alla nozione di urbanizzazione, che vuole denotare un semplice mutamento quantitativo, quella di urbanesimo si rifà quindi ad una trasformazione che coinvolge esclusivamente l’area dei valori, degli atteggiamenti e dei comportamenti, inscrivendosi nel vasto armamentario concettuale utilizzato dai teorici della modernizzazione. L’essere «urbani» accomuna per caratteristiche fisiche, sociali, politiche e culturali, per tratti forti e definitori, insediamenti umani che sotto altri profili sono molto diversi fra loro. L’analisi socio-territoriale deve partire da queste caratteristiche anche laddove voglia insistere su elementi di rottura di vecchi equilibri e vecchie gerarchie territoriali.


    Laddove si ragioni al livello del globo e sui tempi relativamente più lunghi, tra i processi oggi dominanti vediamo all’ex-urbanizzazione associarsi una sostanziale e accelerata concentrazione, delle popolazioni e di alcune attività. Per molti, si tratta invero di una «seconda rivoluzione urbana», di un processo di importanza sociale paragonabile a quello che diede luogo alla rivoluzione urbana del terzo millennio a.C. Se le città infatti fino a due secoli fa costituivano le espressioni più alte delle singole civiltà, la maggioranza delle popolazioni fino a poco fa viveva al di fuori di esse, nelle campagne. Nel XIX secolo appena il 10% della popolazione mondiale abitava in città. L’urbanizzazione si accentua nel XX secolo, specie dagli anni Cinquanta, prima nei paesi industrializzati, poi nei paesi in via di sviluppo, effetto sia della crescita della popolazione che dello spostamento di masse ingenti di popolazioni dalla campagna verso la città. È così che nel 1975 già il 35% della popolazione mondiale vive in aree definite urbane, e che alla fine del secondo millennio la metà della popolazione del globo è fatta di cittadini. Il fenomeno tuttavia si esplica con intensità diverse nelle varie regioni del mondo, e vi produce configurazioni territoriali ed assume significati sociali assai diversi, che saranno esaminati successivamente.


    3. La mega-città protagonista di un'urbanizzazione a molte velocità

    Laddove si ragioni al livello del globo e sui tempi lunghi, tra i processi dominanti vediamo all’ex-urbanizzazione associarsi una sostanziale e accelerata concentrazione, delle popolazioni e di alcune attività. Per molti, si tratta invero di una «seconda rivoluzione urbana», di un processo di importanza sociale paragonabile a quello che diede luogo alla rivoluzione urbana del terzo millennio a.C. Se le città infatti fino a due secoli fa costituivano le espressioni più alte delle singole civiltà, la maggioranza delle popolazioni fino a poco fa viveva al di fuori di esse, nelle campagne. Nel XIX secolo appena il 10% della popolazione mondiale abitava in città. L’urbanizzazione si accentua nel XX secolo, specie dagli anni Cinquanta, prima nei paesi industrializzati, poi nei paesi in via di sviluppo, effetto sia della crescita della popolazione che dello spostamento di masse ingenti di popolazioni dalla campagna verso la città. È così che nel 1975 già il 35% della popolazione mondiale vive in aree definite urbane, e che alla fine del secondo millennio la metà della popolazione del globo è fatta di cittadini.

    E' ormai luogo comune ricordare che metà della popolazione del globo vive in città. Tale media nasconde tuttavia situazioni molto diverse e a questo "tipping point" le diverse regioni del mondo non sono tutte pervenute, o ci pervennero in momenti assai diversi della looro storia.

    Fig. 1.3 Il tasso di urbanizzazione per continente



    tippingpoint

    Questi tre miliardi e seicentomila cittadini si concentrano in buona parte in mega-città, vale a dire in agglomerazioni urbane con più di 10 milioni di abitanti.

    Fig.1.4 Città e megacittà del mondo, 2015



    La più tradizionale regolare analisi, quella delle Nazioni Unite, che rimanda per principio alle diverse definizioni e delimitazioni nazionali degli ambienti “urbani”, propone nel 2011 una lista di 23 megacittà (United Nations 2012), tra le quali i paesi dell'Unione Europea erano rappresentati dalla sola Parigi.

    Fig. 1.5. Le mega-città del mondo (2011, in milioni di abitanti )


    1

    Japan

    Tokyo

    37,22

    2

    India

    Delhi

    22,65

    3

    Mexico

    Ciudad de México (Mexico City)

    20,45

    4

    United States of America

    New York-Newark

    20,35

    5

    China

    Shanghai

    20,21

    6

    Brazil

    São Paulo

    19,92

    7

    India

    Mumbai (Bombay)

    19,74

    8

    China

    Beijing

    15,59

    9

    Bangladesh

    Dhaka

    15,39

    10

    India

    Kolkata (Calcutta)

    14,40

    11

    Pakistan

    Karachi

    13,88

    12

    Argentina

    Buenos Aires

    13,53

    13

    United States of America

    Los Angeles-Long Beach-Santa Ana

    13,40

    14

    Brazil

    Rio de Janeiro

    11,96

    15

    Philippines

    Manila

    11,86

    16

    Russian Federation

    Moskva (Moscow)

    11,62

    17

    Japan

    Osaka-Kobe

    11,49

    18

    Turkey

    Istanbul

    11,25

    19

    Nigeria

    Lagos

    11,22

    20

    Egypt

    Al-Qahirah (Cairo)

    11,17

    21

    China

    Guangzhou, Guangdong

    10,85

    22

    China

    Shenzhen

    10,63

    23

    France

    Paris

    10,62


    Il quadro proposto dagli organismi di ricerca è tuttavia soggetto a leggere variazioni. L'aggiornamento più recente di Demographia, che è fondato in parte sulle proiezioni delle Nazioni Unite, ma che usa una combinazione di criteri di delimitazione più complessa, suggerisce così l’esistenza di un numero ben maggiore di megacittà, diversamente ordinate.


    Per la loro rapidità, la loro variabilità, la loro incoerenza con i tracciati amministrativi classici, il peso del fenomeno in paesi dall’apparato statistico pubblico debole, tali mutamenti territoriali sono infatti difficili da descrivere. 

    Il tasso di crescita della popolazione urbana mondiale sta oggi decelerando. Tra il 1950 e il 2011 secondo le Nazioni Unite crebbe mediamente del 2,6% all’anno, ciò che consentì alla popolazione urbana mondiale di passare da 0,75 a 3,6 miliardi. Per il periodo 2011-2030 la stessa direzione degli Affari economici e sociali delle Nazioni Unite prevede una crescita media annuale dello 1,7%, il che corrisponde sempre tuttavia ad raddoppiamento della popolazione urbana mondiale in 41 anni; e per il periodo successivo 2030-2050 un tasso dello 1,1%, corrispondente ad un raddoppiamento in 63 anni.

    Fig. 1.6 Prospettive di urbanizzazione 1950-2050, a secondo del livello di sviluppo nazionale (dati OCSE)



     La crescita attesa si concentrerà nelle aree urbane dei paesi oggi meno sviluppate (che passerebbe dai 2,7 miliardi odierni a 5,1 miliardi nel 2050), mentre quella delle aree oggi più sviluppate crescerà più modestamente (dal miliardo attuale a 1,1 miliardo); e  la popolazione rurale decrescerà in modo consistente nelle aree oggi meno sviluppate (da 3,1 miliardi a 2,9 miliardi di abitanti) (Ibidem).  Il quadro proposto dalle proiezioni più recenti tende tuttavia ad insistere sulle particolarità locali, le continue accelerazioni o inversioni di tendenza importanti da notare in alcune aree dell'Asia e dell'Africa.

    Non si può non interpretare tale uniforme e macroscopico fenomeno come uno degli elementi di un processo di trasformazione più ampio che investe in questo mezzo secolo un mondo sempre più interdipendente. Le aree urbane sono le protagoniste della globalizzazione; esse illustrano nel modo migliore questo insieme di processi sociali, demografici, culturali e politici, in parte guidato e in parte subito dalle classi dirigenti economiche e politiche; ciò avviene per la loro capacità di innovazione tecnologica, la loro partecipazione alla rivoluzione cognitiva, le loro risorse economico-finanziarie, le migrazioni che richiamano, la loro plurietnicità, le forme – e il livello – di espressione delle nuove domande che vi si manifestano; con i loro diversi effetti, positivi e negativi sulle opportunità di vita offerte alle popolazioni.

    Le città sono quindi anche protagoniste del dibattito internazionale sulle disuguaglianze, tra parti del mondo e tra generazioni. Da tempo l’immagine delle luci notturne elaborata ad esempio dalla NASA, usata in molte sintesi ormai classiche sulle disuguaglianze globali, è considerata, non solo come descrittiva dei centri nevralgici globali, ma diventa anche denuncia se confrontata con l’immagine relativa alla densità della popolazione planetaria che abbiamo appena osservata.

    Compariamo i grappoli illuminatissimi del Nord-Est americano con i livelli relativamente bassi di luce emessi da   una popolazione cinque volte più numerosa in India. Che cosa è più sostenibile? Che cosa è più ameno? Le città ricche d’energia dei paesi altamente industrializzati oggi sono ciò che devono diventare le altre? O formano un club esclusivo i cui membri privilegiati non vogliono o sono incapaci di aprire le porte agli altri? [UN World Urbanization Prospects 2001, 9].

    Fig.1. 7  L'atlante urbano nelle immagini della NASA


    D’altra parte, oberate da tutti i problemi della crescita, le città sono sempre più soggette a crisi drammatiche, specialmente nei paesi in via di sviluppo, ma non soltanto. Disoccupazione, degrado ambientale, carenza di servizi urbani, deterioramento delle infrastrutture e carenza di spazio, di risorse finanziarie e di alloggi adeguati vi assumono nuove dimensioni patologiche.

    La città come tale entra di conseguenza in posizione preminente nell’agenda delle politiche di sviluppo.  L’impegno delle Nazioni Unite, in collaborazione con i governi nazionali, gli enti locali, le associazioni, le imprese, i centri di ricerca  per una riqualificazione degli “insediamenti umani” è così cresciuto dalla dichiarazione di Vancouver e alla prima Agenda Habitat del 1976,  all’Agenda Habitat II definita ad Istanbul nel 1996, ad Istanbul+5 nel 2001 e alla Risoluzione detta Millennium Declaration  “Dichiarazione sulle città e gli altri insediamenti umani”, fino alla Conferenza di Habitat III tenutasi a Quito nel 2016 e onclusasi con la proposta di New Urban Agenda. Le condizioni dell’alloggio e dei servizi collegati diventano tema centrale di Habitat, che d’altra parte dà origine negli ultimi anni ad una serie di programmi di finanziamenti e di assistenza tecnica volta a migliorare le politiche di gestione delle città nei paesi in via di sviluppo, con un attenzione particolare per gli interventi di protezione dell’ambiente e di potenziamento delle infrastrutture, nonché per le pratiche di valutazione e di informazione.


    In our world, one in eight people live in slums. In total, around a billion people live in slum conditions today. This not only amounts to a rather unacceptable contemporary reality but to one whose numbers are continuously swelling. In spite of great progress in improving slums and preventing their formation– represented by a decrease from 39 per cent to 30 per cent of urban population living in slums in developing countries between 2000 and 2014 – absolute numbers continue to grow and the slum challenge remains a critical factor for the persistence of poverty in the world, excluding fellow humans and citizens from the benefits of urbanisation and from fair and equal opportunities to attain individual and collective progress and prosperity (Slum Almanac 2015-2016).  



    4. Forme contemporanee di ex-urbanizzazione

    Similmente a quanto fatto per i termini destinati a descrivere i processi di trasformazione dei territori urbani, è utile ripercorrere, per chiarezza, i termini più spesso usati nelle scienze sociali per descrivere i risultati di questi processi, le proiezioni territoriali nuove degli insediamenti. 

    Tra i termini relativi, non più ai processi, ma alle conformazioni urbane che ne scaturiscono ha ritrovato fortuna nel dibattito contemporaneo uno dei più antichi coniati per descrivere le trasformazioni degli insiemi urbani, quello di «conurbazione», proposto da Geddes all’inizio del XX secolo [1915]. Con esso si intende quell’insieme urbano nato dall’espansione di una città dotata di qualche carattere di preminenza, che porta all’assimilazione dei centri minori che la circondavano. La «conurbazione » è quindi una forma di agglomerazione urbana dotata di qualche gerarchia interna leggibile (per «agglomerazione urbana», dobbiamo invece intendere genericamente qualunque insieme denso e contiguo di insediamenti con i tratti culturali dell’urbanesimo).

    La nozione di conurbazione non è quindi dissimile dalla nozione di «area metropolitana» nella sua accezione italiana classica. Con ciò dobbiamo intendere, secondo Ardigò, «quell’unità spaziale urbana composta di una città centrale di sufficiente dimensione demografica e di aree urbanizzate gravitanti intorno alla città centrale e con questa strettamente interrelate» [Ardigò 1967]. Col termine di area o di regione «metropolitana» si sottolinea la relazione che intercorre tra i fenomeni di espansione e una struttura gerarchica del mondo urbano: con «metropoli», termine tratto dalla nomenclatura religiosa, si indica la città di riferimento, dotata di predominio politico e culturale, di un’intera area culturale. Alcune aree metropolitane sono dette policentriche; è il caso in Italia dell’area metropolitana Venezia-Verona-Padova. Con ciò si intende che sono insiemi complessi di sub-aree internamente gerarchizzate, strettamente interdipendenti, ma tra le quali è invece difficile delineare una struttura gerarchica netta. Il concetto coniato specificamente in altri contesti culturali per designare tale conformazione è quello (proposto da Gottmann) di «megalopoli», non a caso ripreso di recente per designare l’area metropolitana padana [Turri 2000]. Alcuni autori, dopo Mumford, utilizzano questo termine per designare semplicemente la città occidentale in una sua specifica fase di sviluppo, quella della crescita economica e dell’espansione fisica nei suburbi con- sentita dall’accesso di massa all’automobile e dallo sviluppo dei trasporti collettivi [Mumford 1938; 1961].  Sostituendo l’epiteto di globale a quello di metropolitana, promuovendo la nozione di «città-regione globale» [Scott 2001], sulla quale torneremo successivamente, un’ampia letteratura più recente oltre a proporre una serie di tesi sulla conformazione fisica e sociale delle grandi aree metropolitane emergenti nell’economia mondiale, sulla scia della nozione di «città globale» proposta da Saskia Sassen, inserisce con efficacia l’analisi delle dinamiche socio-territoriali interne a quella della ristrutturazione territoriale complessiva richiesta dalle nuove dinamiche economiche. Meno attenta a questi aspetti e più interessata invece alla vita quotidiana delle popolazioni, all’innovazione nella gestione e nella progettazione urbane, alle sfide culturali e politiche che pongono le grandissime agglomerazioni (con più di 10 milioni di abitanti)  è il filone di analisi che preferisce il termine di «megacittà». Nelle analisi di UNHabitat sono proposti i termini di "megaregioni", "corridori urbani" e "città-regioni" , nelle accezioni qui sotto precisate, per descrivere le tendenze dominanti di riconfigurazione dei territori urbani.

    Tipi emergemti di megacittà nelle analisi di UNHabitat