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  • Le immagini delle relazioni tra territori proposte più di recente nelle scienze umane insistono, come abbiamo visto, in contrasto con quanto avveniva vent’anni fa, sul peso e sulle funzioni di specifiche formazioni territoriali che scaturiscono dal nuovo ordine economico mondiale. Esse descrivono, a seconda della matrice analitica, il consolidamento di poche «città mondiali», “città globali” o “città regioni globali”, di reti urbane dominanti, di formazioni distrettuali, modalità diverse di ri-gerarchizzazione Le disquisizioni  sulla  diffusione  urbana non sono vanificate, ma assumono tutt’altro significato e interesse se, allargando l’orizzonte geografico e tematico, si reinseriscono nel  contesto problematico più ampio delle relazioni tra le città e l’insieme dei fenomeni economici e culturali che siamo soliti ormai riassumere sotto l’etichetta  di  globalizzazione.


    1.      Comprendere la gerarchia urbana globale

    Saskia Sassen dalla fine degli anni Ottanta caratterizza tale ri-gerarchizzazione enfatizzando l’affermarsi di poche “città globali”. La città globale sarebbe succeduta alle vecchie capitali politiche, eredi della città barocca, come città egemonica del nuovo ordine mondiale. Ecco la descrizione che ne propone:

    Una combinazione di dispersione spaziale e di integrazione globale ha creato un nuovo ruolo strategico per le maggiori città. Superando il loro ruolo storico di centri per il commercio internazionale e l’attività bancaria, queste città oggi ricoprono funzioni centrali sotto quattro ulteriori aspetti: come luoghi di potere altamente concentrato nell’organizzazione dell’economia mondiale; come localizzazioni chiave delle imprese di servizio specializzato e delle attività finanziarie; come luoghi della produzione, inclusa la produzione di innovazioni, in questi settori di punta; come mercati per i prodotti e le innovazioni prodotte [...]. Tali mutamenti nel funzionamento delle città hanno un impatto massiccio sull’attività economica internazionale e sulla forma urbana. Le città concentrano il controllo su vaste risorse, mentre la finanza e le attività di servizio specializzate hanno ristrutturato l’ordine urbano, sociale ed economico. Un nuovo tipo di città è quindi comparso. È la città globale [1991, 3-4].

    Friedmann e Wolff [1982] avevano precedentemente proposto una simile immagine dell’avvenire delle maggiori città, da essi definite «città mondiali», indicando come compito primario per le scienze sociali l’analisi dell’impatto che i mutamenti da poco in atto nelle attività stesse di queste città possono avere sulla loro struttura sociale. Il motore del cambiamento era, a loro giudizio, il settore dominante dei servizi alle imprese di alto livello, che occupava un largo numero di persone altamente qualificate – l’élite transnazionale – e uno staff ancillare di personale impiegatizio. L’élite transnazionale, in quanto classe dominante della città mondiale, la organizza in funzione dei propri stili di vita e delle proprie necessità di lavoro. Per Friedmann e Wolff, come poi per la Sassen, la polarizzazione della struttura di classe è tratto emblematico della città mondiale, segnata dal contrasto tra le condizioni economiche e gli stili di vita dell’élite transnazionale e la miseria nella quale si trova a combattere quotidianamente un terzo circa della popolazione (l’underclass permanente della città mondiale).

    Posizionare le città mondiali in una gerarchia urbana globale è così diventata preoccupazione di molti specialisti di studi urbani internazionali. Punto di riferimento basilare è ovviamente il prodotto interno lordo delle città, in relazione alla loro popolazione. Dati comparati aggiornati sono ad esempio forniti su questa base nel Brookings Global Metro Monitor. Illustrano la capacità delle grandi città di concentrare la ricchezza e le risorse produttive mondiali.

     

    Il prodotto interno lordo non è tuttavia sufficiente per comprendere perché e come si affermano alcune grandi città più di altre e quali siano le conseguenze sociali di tale fenomeno, nonché per orientare di conseguenza le politiche pubbliche. Tra le varie proposte analitiche, il World Cities Study Group and Network (GaWC) dell’Università di Loughborough  (Beaverstock et al. 1999),  che si è specializzato negli ultimi decenni nelle ricerche sul tema, distingue quattro approcci principali alla costruzione di classifiche internazionali di città: alcuni analizzano le preferenze di localizzazione e i ruoli delle corporazioni multinazionali limitando l’analisi ai paesi sviluppati  (Hall 1966, Heanan 1977), altri incentrano l’attenzione più precisamente sulle capacità e le attività decisionali di queste corporazioni nel contesto della nuova divisione internazionale del lavoro (Cohen 1981, Friedmann e Wolff 1982, Thrift 1989), altri sulla loro propensità e capacità delle città ad impegnarsi per l’internazionalizzazione, la concentrazione dei produttori di servizi (Sassen 1991, 1994), altri, infine guardano alla graduatorie dei centri finanziari internazionali (Reed 1981): lo stesso gruppo diretto da P. Taylor e J. Beaverstock nota in conclusione che tutti guardano agli attributi delle città mentre sarebbe più utile analizzare le relazioni tra membri individuali di un sistema di città (Taylor 1997); ma mentre le statistiche disponibili, anche se spesso non omogenee, sugli attributi delle città sono numerose, più difficile è il procurarsi informazioni quantitative sulle relazioni singole che in concreto assicurano ad un insieme urbano una posizione di rilievo nella rete internazionale di città dominanti.  Si utilizzano allora analisi del contenuto delle riviste di affari ed economia principali, tracciati delle migrazioni di persone altamente qualificate, della struttura geografica dei rami principali di società internazionali di servizi finanziari e legali (Beaverstock et al. 1999, Hall 2001).

    Fa oggi frequentemente da riferimento la tipologia di città proposta dallo stesso gruppo di ricerca GaWC  di Loughborough (Beaverstock et al. 1999, Taylor et al. 2001, Beaverstock et al. 2017) . Nozione chiave è quella di “alpha global cities”: sono identificate una cinquantina di Alpha cities, che siedono all’apice dell’economia globale e ospitano forti concentrazioni di funzioni ad orientamento globale come la finanza e la banca di alto livello, i servizi legali, la contabilità aziendale, il marketing e la pubblicità. Al loro interno, secondo alcuni, si possono distinguere diversi clusters a seconda della loro relativa specializzazione: sulle tecnologie high tech o fondate sulla conoscenza, oppure sulle industrie creative dei media, del tempo libero, della pubblicità ad esempio (Schoales 2006). All’interno della alpha cities, è inserita una distinzione tra le due città prominenti, Londra e New York (Alpha ++), 8 Alpha + (Beijing, Dubai, Hong Kong, Parigi, Shangai, Singapore, Sydney, Tokyo), 22 città Alpha (Milano vi appartiene), e 22 città Alpha – (tra cui Roma). Accanto alle città Alpha, una ottantina di città Beta, che collegano regini di medie dimensioni all’economia mondiale, una lista più lunga di città gamma che collegano regioni più piccole all’economia mondiale, infine di città “sufficienti”, vale a dire che dispongono di una dotazione sufficiente di servizi per non dipendere da città mondiali.   

    Richard Florida, sulla base di questa classifica, dai dati del Global Metro Monitor, della classifica Forbes  dei miliardari globali, e di dati sul venture capital, vede le dinamiche di ricostruzione delle gerarchie urbane dominate dal fenomeno del “winner take all”. Non solo le città alpha rappresentano una quota del prodotto lordo mondiale doppio rispetto alla quota della popolazione mondiale che vi abita, e vi si concentrano i super-ricchi, ma vi si dirige con intensità, e specialmente in poche città tra di loro, l’investimento nelle startup. Cinque metropoli globali attraggono quasi la metà dell’investimento in venture capital globale, per il 3,3% del prodotto lordo globale e l’1,4% della popolazione globale. In tale ultima classifica tuttavia, appaiono in buona posizione alcune città “beta” nella tipologia del GaWC.  Per Florida (2017), tale capacità di concentrazione delle risorse porta ad una “New Urban Crisis”, tendenza in contrasto con le sue precedenti ipotesi di diffusa capacità delle città di stimolare lo sviluppo locale, accogliendo la “classe creativa” mediante politiche urbane adeguate (Florida 2012).

     

     

    Tali considerazioni tendono tuttavia a non evidenziare le, forti, differenze tra regioni del mondo, che continuano ad essere evidenziate a partire dai dati sul prodotto lordo e il suo andamento.  Oltre alle differenze negli scarti tra PIL delle megacittà e PIL nazionali già evidenti nei dati già presentati, l’andamento rilevato negli ultimi anni è lontano dall’essere uniforme. Dai dati del Global Metro Monitor, la posizione delle città emergenti del continente asiatico è, ad esempio, tra il 2014 e il 2016, rapidamente cambiata; ma all’interno stesso dei diversi continenti, le traiettorie delle città appaiono estremamente diversificate.

    Un’illustrazione dei meccanismi sui quali si fonda la competitività delle città, seppur in un contesto definito, quello dell’America del Nord, è offerta da un caso eclatante largamente discusso nella stampa e nella letteratura, quello del concorso lanciato da Amazon per il suo Head Quarter 2.

    Box

    Per la localizzazione del suo secondo quartiere generale, Amazon, nel 2018 apre una competizione tra città del Nord America. Dopo una selezione in due tappe tra le numerose città che hanno formalizzato on line le loro offerte, sceglie di abbinare due localizzazioni: Queens (città di New York, Long Island Ovest) e Cristal City (Washington, Stato di Virginia). Svilupperà anche una piattaforma a Nashville. Al totale in ognuna delle due sedi si tratta di creare 25000 posti di lavoro.

    Il progetto suscita un dibattito nazionale acceso anche per l’intervento di Alexandria Ocasio-Cortez, stella nascente del partito democratico, appena eletta nel Congresso per la circoscrizione di Queens, tradizionalmente popolare. La comunità che rappresenta considera la proposta dello Stato di New York  un “oltraggio”. L’importo dei vantaggi garantiti corrisponde alle spese di manutenzione delle strade dell’intero Stato di New York per 3 anni. Le tasse dei cittadini, si considera, sono traviate per finanziare grandi imprese, mentre mancano servizi per la vita quotidiana delle famiglie che abitano l’area.

    Amazon nel febbraio del 2019 rinuncia alla localizzazione nel Queens.

    I ricercatori intervenuti nel dibattito (Farren, Cohen) hanno fatto valere alcune regolarità empiricamente verificate in sociologia economica: secondo una ricerca della Brookings Institution, ad esempio il 90% delle imprese che si è insediata con incentivi pubblici non ha scelto la localizzazione per questo motivo. Amazon con la procedura di scelta ha tra l’altro ottenuto una pubblicità indiretta, gli incentivi non sono comunque criterio di scelta predominante. A riprova, si rileva come nel caso specifico città diverse da quelle scelte avevano proposto delle condizioni migliori di quelle selezionate; che corrispondono ad un impegno finanziario ragguardevole da parte degli enti locali (2,2 miliardi di dollari a New York, in buona parte in vantaggi fiscali, quindi non “spese” vere e proprie, ma anche contributi per 573 milioni; il che corrisponde a più di 8000 dollari per posto di lavoro). La procedura della gara, si sottolinea poi, porta ad incentivi selettivi, costruiti per una sola azienda, che falsano la concorrenza e creano o si fondano su sodalizi tra amministratori ed imprese (cronyism). Che cosa cercano in realtà le imprese? manodopera locale qualificata, tessuto produttivo e di servizi preesistente che garantisce funzionamento, ambiente business friendly, buona qualità della vita. Per cui, nel caso specifico, la rinuncia rapida al progetto di Queens.

    Al di là delle specificità di contesto, il caso offre quindi una immagine sintetica dei processi globali dell’attuale ri-gerarchizzazione dei territori e delle sue conseguenze sociali. In primo luogo dell’illusoria affermazione di autonomia delle leadership cittadine, che si affrancano dalle fedeltà nazionali, nel contesto della glocalizzazione:  gli osservatori americani sottolineano come il gioco a livello federale sia a somma zero, e chiamano ad una regolamentazione federale o tassazione federale sugli incentivi locali. Della crescente concentrazione delle risorse economiche e culturali, poi: sono le grandi città ad attrarre le grandi imprese innovative. Infine del crescente dualismo sociale di queste stesse grandi città: il quartiere popolare attrae per il suo carattere pittoresco, è quartiere “autentico”, secondo la formula di Sharon Zukin  (Naked City 2010, cfr. infra). Queens, quartiere popolare, situato accanto ai quartieri borghesi dell’Est di Long Island, è collocazione perfetta per i lavoratori qualificati e i dirigenti di Amazon alla ricerca di quest’autenticità ma anche dei comodi ai quali sono abituati.

    Il rischio percepito è quello di una espulsione dei residenti e delle attività già insediate nel quartiere; si prevede un aumento rapido dei prezzi degli immobili, mentre si tende a valutare poco l’impatto possibile dell’indotto: il trasferimento porterebbe vantaggi a proprietari e a qualche servizio preesistente.  Il conservatismo della popolazione popolare esprime la forte consapevolezza delle trasformazioni del lavoro, e della struttura sociale, nelle megacittà dominanti.

    La riflessione sulle dinamiche economiche che impongono e strutturano la metropoli, dagli esordi della disciplina, oltre a tentare di discernerne le funzioni caratterizzanti, associa l’indicazione del consumo come pratica sociale determinante per il e nel capitalismo emergente, quindi come dimensione chiave per comprendere comparativamente le città. Torniamo brevemente a queste analisi classiche per situare i, diversi, approcci contemporanei alla città dei consumi.

     

    2.      Città, consumo e capitalismo: la teoria classica

    Il concetto «economico» di città proposto da Weber mentre ne elabora il più noto concetto «politico» è di norma tralasciato nell’esegesi di Die Stadt: esso è considerato come prodotto intermedio nel suo percorso di elaborazione teorica. Benché detto «economico», il concetto è però parte importante del contributo weberiano all’analisi sociologica dei sistemi urbani e apre un filone di analisi, dedicata ai comportamenti di consumo e agli stili di vita urbani, le cui fortune alterne cercheremo di tratteggiare, e che comunque non verrà più declinato con l’ampia prospettiva comparata adottata da Weber.

    La peculiare composizione di attività economiche che differenzia una città dall’altra si associa, nell’analisi di Weber, a stili di vita di cui è portatore un ceto dotato di ampie possibilità di consumo e della capacità di imporre i propri modelli comportamentali al resto della società. La «città aristocratica» medievale vive secondo lo «stile di vita cavalleresco», fondato sul rifiuto del lavoro, anche imprenditoriale (al quale sarà contrapposto l’obbligo all’impegno economico con l’affermarsi della «città plebea»). Lo stile di vita cavalleresco suscita l’emulazione dalle fasce sociali contigue definendo, avrebbe detto Bourdieu [1979], gli strumenti di «distinzione» per buona parte della popolazione, strumenti che i «forti consumatori» trasmettono ai «consumatori di massa».

    Lo stile di vita cittadino è quindi sempre in armonia con la struttura economica della città, ma mediata dalla distribuzione del prestigio. Osservando chi sono i «grandi consumatori», suggerisce Weber, si possono distinguere: a) città di consumatori, b) città di produttori, c) città di commercianti.

    a) «Città di consumatori» sono quelle città nelle quali l’economia e lo stile di vita locali dipendono innanzitutto da categorie sociali che oggi si definirebbero «inattive» (rentiers borghesi o aristocratici, lavoratori ritirati dal lavoro); a questi inattivi Weber assimila gli amministratori pubblici. Al tipo della città principato, cioè di quella in cui gli abitanti dipendono direttamente o indirettamente per le loro prospettive di guadagno dalla capacità d’acquisto della casa principesca e delle altre grandi amministrazioni, somigliano quelle città nelle quali è la capacità d’acquisto di altri forti consumatori, di coloro cioè che vivono di rendite, che decide delle probabilità di guadagno degli industriali e dei commercianti locali. Questi forti consumatori possono essere di tipo assai diverso, a seconda della specie e provenienza delle loro rendite. Possono essere: 1) funzionari che spendono in città i loro redditi legali o illegali; oppure 2) signori e potentati politici che vi consumano le loro rendite fondiarie extraurbane o altri introiti di origine particolarmente politica. In ambedue i casi la città somiglia assai al tipo di città sede di principato: essa vive di rendite patrimoniali e di proventi di natura politica costituenti la base della capacità d’acquisto dei forti consumatori (esempio di città d’impiegati: Pechino; di città di possidenti: Mosca, prima dell’abolizione della servitù della gleba) [...] Oppure i forti consumatori possono vivere di rendita, oggi specialmente frutto di azioni, e di dividendi e percentuali: la loro capacità di acquisto si basa allora specialmente su rendite finanziarie, in special modo capitalistiche (es. Arnheim), oppure si basa su pensioni statali o altre rendite dello stato (quasi una «pensionopoli», quale Wiesbaden). In tutti questi ed in numerosi altri casi simili, la città è più o meno una città di consumatori. Perché la presenza, proprio sul luogo, di quei forti consumatori, diversi fra loro dal punto di vista economico, è decisiva per le possibilità di guadagno degli industriali e dei commercianti della città [Weber 1920; trad. it. 1950, 7].

    b) Alla città di consumatori si contrappone la cosiddetta «città di produttori». Qui il benessere cittadino, la crescita demografica ed economica sono l’effetto della presenza e dello sviluppo di fabbriche, di manifatture o di «industrie casalinghe» che vendono all’esterno, anche all’estero. Esempi citati da Weber: Essen e Bochum. Queste città rappresentano, a suo giudizio, il «tipo moderno di città», poiché sono le

    città del «capitalismo moderno». Ma alla stessa tipologia corrispondono città più tradizionali, nelle quali domina l’artigianato e non ancora l’industria: è il tipo di città asiatica, antica o medievale. I consumatori per il mercato locale sono costituiti in parte dagli imprenditori che risiedono sul posto – e sono forti consumatori –, in parte, e più specialmente, dagli operai e artigiani quali consumatori di massa; infine dai commercianti e possidenti, da quelli indirettamente riforniti e che per lo più sono forti consumatori  [ibidem,  8].

    c) La «città di commercianti», infine, è quella nella quale forti consumatori possono essere commercianti che vendono al minuto prodotti stranieri sul mercato locale (come, ricorda Weber, i sarti nel Medioevo), che esportano prodotti locali (come gli esportatori di aringhe delle città della Hansa), che acquistano prodotti esteri per riesportarli altrove (nel caso delle «città di commercio di transito»), oppure combinano queste varie attività commerciali.

    Si ricorderà quanta importanza Weber attribuiva nella storia dell’Occidente e della sua avventura urbana all’esperienza della «commenda» e della societas maris dei paesi del Mediterraneo: un tractator, commerciante viaggiatore, trasportava e vendeva nei mercati del Levante prodotti locali o acquisiti sul mercato locale col capitale ricevuto (totalmente o in parte) in accomandita da capitalisti residenti nel luogo; col ricavato acquistava merci orientali che vendeva sul proprio mercato; il ricavo complessivo veniva poi diviso secondo gli accordi prestabiliti fra il tractator e il capitalista [ibidem, 8]. Alcune città moderne, rileva Weber, si riavvicinano al modello:

    Qualcosa di sostanzialmente simile avviene quando una città moderna (Londra, Parigi, Berlino) è sede di capitalisti e di grandi banche nazionali o internazionali oppure (ad es. Düsseldorf) è sede di grandi società per azioni o di cartelli [ibidem, 9].

    Sombart, riflettendo come Weber sulle origini del capitalismo moderno [1916], vede uno snodo storico-geografico nella città settecentesca. In questo eccezionale momento di sviluppo demografico ed economico delle grandi città, che consegue all’inurbamento dei grandi consumatori, si sarebbe formata proprio la città moderna nei suoi tratti perduranti, vale a dire quella città che è innanzitutto il luogo del consumo di lusso. È allora che la grande città inizia a creare opportunità del tutto nuove di vita sontuosa e spensierata: teatri, sale da ballo, alberghi di lusso diffondono dalle corti ad un pubblico relativamente ampio un ideale di vita e un modello di consumo dai tratti aristocratici. I ceti cittadini erano allora composti, dice Sombart, quasi esclusivamente da persone che volevano divertirsi, la cui preoccupazione maggiore era di spendere il proprio denaro in modo da rendere più piacevole la vita. La città favorisce quindi l’avvio e l’accelerazione del processo capitalista con nuove opportunità di profitto: l’oggetto di lusso (per lusso si intende ogni forma di rifinitura di un bene superflua dal punto di vista del soddisfacimento del bisogno a cui il bene risponde) e la sua diffusione sono anelli chiave del processo di trasformazione delle strutture produttive che allora si innesca. Nella città settecentesca ha anche inizio, suggerisce Sombart, il processo di standardizzazione della condotta di vita che verrà a lungo considerato come tipico della metropoli. Alla diffusione strettamente privata del lusso iniziano a subentrare forme collettive di manifestazione del lusso stesso [Sombart 1916; trad. it. 1967, 220-223].

    La città contribuisce ad aumentare le esigenze del lusso. […] per lo sviluppo del lusso è importante la città, soprattutto perché crea nuove possibilità di vita allegra ed esuberante e, pertanto, nuove forme di lusso. Le feste non rimangono circoscritte ai palazzi dei principi, ma si estendono ad altri ambiti sociali, che provano l’esigenza di locali di divertimento […] il lusso privato viene a essere sostituito dal lusso collettivo (Ibidem).

     

    3.      Consumi e dualismo urbano


     ■ La sociologia dei consumi, nella sua prima fase di affermazione accademica,  tende all’interesse di Weber e di Sombart per i consumi come elementi di differenziazione,  a sostituire una prospettiva, riconducibile a Veblen, che considera invece il consumismo un fenomeno culturale capace di travalicare le frontiere delle classi o degli strati sociali e nega che possa rivestire forme diverse e specifiche a seconda del capitale personale dell’individuo, economico e sociale [Otnes 1988; Warde 1990]. Diversa è la prospettiva dominante in sociologia urbana nella quale predomina la denuncia della capacità riproduttiva delle disuguaglianze sociali dello stesso consumismo.

    Qualche anno prima del rilancio della sociologia dei consumi sulla scena europea, la sociologia urbana si era riavvicinata infatti al tema dei consumi, con la proposta marxista, formulata in particolare da Castells, di uscire dalla crisi della sociologia urbana assimilando il suo campo a quello dei consumi collettivi [Castells 1977]. La società urbana, nell’analisi di Castells, è il luogo della riproduzione della forza lavoro più che della produzione. La funzione di consumo vi domina, rispetto a quelle della produzione e della gestione. Nel consumo differenziato dei beni collettivi (in particolare nel funzionamento e nell’accesso delle varie categorie sociali ai servizi urbani) si esprimono nitide le disuguaglianze generate dal capitalismo avanzato; ed è per l’accesso a questi beni (trasporti pubblici, scuole, alloggi popolari) che un nuovo proletariato può sviluppare le nuove «lotte urbane».

    ■ Rielaborando la tesi secondo la quale i sistemi urbani vanno interpretati come configurazioni di cleavages di consumo, Saunders, in polemica con Castells, affida anch’egli alla sociologia urbana un nuovo campo e nuovi strumenti. Le ipotesi sono la separazione crescente, nel mondo contemporaneo, tra sfera della produzione e sfera del consumo; la decadenza di categorie sociologiche come quelle di relazioni economiche capitaliste e di classe sociale; la dimensione essenzialmente politica del consumo, atto a suscitare crescente mobilitazione in quanto sfera nella quale interviene l’ente pubblico [Saunders 1986]. I cleavages di consumo seguono la linea di frattura tra settore della produzione collettivizzata e settore della produzione privata di beni e servizi. Il settore dell’alloggio riveste un ruolo emblematico. La proprietà dell’alloggio è vettore di ricchezza, e di trasmissione intergenerazionale della ricchezza. Ma è anche «espressione di identità personale e fonte di sicurezza ontologica» [ibidem, 203], poiché riguarda quella che «per molti è la risorsa centrale della vita quotidiana – la casa» [Saunders-Williams 1988, 86]. La dicotomia proprietari-non proprietari viene estesa ad altre categorie di beni (automobile, assicurazioni, pensioni) e sta alla base di un cleavage sociale determinante tra chi può acquistare e chi è in balia dell’intervento dello stato. La polarizzazione sociale cresce come effetto della divaricazione dei modi di consumo.

    Il livello del sistema urbano riveste poi un’importanza cruciale ma ambigua. Il segmento locale del sistema politico è il luogo del consumo, ma anche dell’incontro immediato tra acquirente o cliente e rappresentante politico. È a questo livello, laddove il settore pubblico sia affiancato da un settore privato, che si può esercitare il potere di decidere se utilizzare o meno le strutture pubbliche fornitrici di servizi; anche se in molti campi di intervento non è del tutto ovvio che per il settore privato vi sia la possibilità di esistere senza un sostegno dei poteri locali e dello stato centrale.

    Negli anni Settanta la sociologia del consumo enfatizzava eccessivamente, secondo Saunders, la dimensione del conflitto urbano. Nell’interpretazione di Castells, le tensioni che emergono dalla stessa polarizzazione sociale denunciata da Saunders proiettano la società locale in un mondo di conflitto globale tra capitale e proletariato. Il «conflitto urbano», rivolta dei cittadini ai quali lo stato non offre beni e servizi adeguati, ha una portata rivoluzionaria, poiché sviluppa la consapevolezza delle contraddizioni del capitalismo, e in quanto tale supera i confini locali. Egli afferma che «l’intervento statale nella città, mentre tenta di superare le contraddizioni che risultano dall’incapacità di produrre d’urgenza beni e servizi, di fatto politicizza e globalizza i conflitti urbani articolando direttamente le condizioni materiali della vita quotidiana e il contenuto di classe delle politiche pubbliche» [Castells 1978, 170]. Anche per Saunders, i cleavages politici emergono laddove vi sia un alto grado di frammentazione tra modi di consumo privati-individualizzati e pubblici-collettivi. Egli suggerisce tuttavia che l’insoddisfazione verso l’offerta di servizi pubblici, anche se porta ad impegnarsi in un movimento di protesta, non sempre può essere interpretata come tappa di un conflitto mondiale in fieri. Tra le episodiche «lotte» per l’accesso ai servizi, la protesta elettorale, l’allontamento dalla politica (che trasforma la rinuncia all’offerta pubblica in rinuncia a far sentire la propria voice nei luoghi deputati del sistema politico in exit), le modalità con le quali la pauperizzazione e la conflittualità diffusa trasformano le relazioni tra i cittadini e il sistema politico sono numerose, e premono comunque verso la conferma della dimensione locale della politica.

     ■ La questione dei collegamenti tra i conflitti urbani locali, determinati dalle difficoltà di accesso ai servizi e alla stessa città, e le trasformazioni globali viene riproposto da David Harvey in Rebel Cities [2012], in un’analisi più vicina a quella di Castells, classicamente marxista, per la quale la distinzione pubblico-privato perde la sua pregnanza, e che propone tuttavia una interessante riflessione sulla composizione delle due classi, borghesia e proletariato, e sulle più recenti forme di mobilitazione, come Occupy Wall Street.  Negli Stati Uniti, la formazione nel secondo dopoguerra di un largo segmento della classe operaia proprietario della propria abitazione ha consentito, secondo Harvey, non soltanto di rivitalizzare l’economia tramite edilizia ed urbanizzazione, ma anche di controllare gli stili di vita, i valori politici, la visione del mondo, dei lavoratori. L’urbanizzazione neo-liberale in molti paesi occidentali ha similmente portato ad enfatizzare il consumo come elemento distintivo di un’élite limitata, e spostato un’ampia maggioranza della popolazione, indebitata quindi impoverita, nelle aree esterne delle città. Motivi per cui la città e il processo urbano che produce diventano i siti principali delle lotte politiche, sociali e di classe, lotte che, superando la dimensione locale dovrebbero costituire secondo Harvey la base di network sempre più complessi ed estesi volti a riappropriarsi del “diritto alla città”.

    ■Il tema del dualismo urbano è anche al cuore del filone di ricerche maggiormente interessato all’analisi delle culture urbane, vale a dire dei valori che orientano i comportamenti quotidiani all’interno delle grandi città.  Si osserva qui che il significato degli “stili di vita urbani” è oggi cambiato. Mentre a Weber erano potuti apparire prerogativa piuttosto stabile dello status sociale, oggi illustrano piuttosto un aggressivo benché illusorio inseguimento del capitale culturale (Bourdieu 1984); per gli individui, donne e uomini, tale inseguimento incoraggia diverse forme di consumo culturale. Per le città, stimola la crescita sia delle industrie culturali for-profit e delle istituzioni culturali no-profit. Tali cambiamenti corrispondono a vari mutamenti strutturali: l’emergere del post-modernismo – come forma d’arte, modo di produzione post-industriale e portatore di meccanismi di costruzione delle identità;  la crescita del settore dei servizi; e l’arrivo alla matura età della generazione del baby-boom, il cui peso demografico e l’aspettativa generalmente alta di amenità ha enfatizzato la domanda di consumi di beni di qualità e distintivi. L’attenzione agli stili di vita urbani riflette anche altri mutamenti. Come gli immigrati, le minoranze razziali ed etniche e gay e lesbiche sono diventati attori più visibili sia negli spazi pubblici che nelle attività culturali, hanno reso più visibili una varietà di modi di vita “alternativi”, specialmente nelle grandi città dove sono concentrati” (Zukin 1998, p. 825).

    L’attenzione agli stili di vita, come elemento di caratterizzazione del paesaggio urbano e come componente importante di costruzione identitaria, non solo, afferma Zukin in Landscapes of Power [1991], sposta il desiderio di consumi verso i prodotti culturali, ma sviluppa nuove forme di attaccamento ai luoghi. Sotto la “distruzione creatrice” delle industrie culturali, diversità e standardizzazione vanno di pari passo. L’economia di mercato tende a staccare gli individui dalle istituzioni sociali e a rinforzare il loro attaccamento ai luoghi, luoghi sempre più definiti da un’architettura sempre meno distintiva e da un’offerta che ripropone un’interpretazione globale del vernacolare.

     In Naked City [2010], a partire dall’osservazione delle trasformazioni dei quartieri di New York, Zukin mostra come nei decenni più recenti la ricerca dell’autenticità diventi il principio ordinatore dello sviluppo urbano, uno sviluppo guidato dalla grande impresa. L’autenticità come ideale urbano, concetto élitista, fondato sul consumo, acquista la capacità, perché esprime un  potere, di riorganizzare la città. Il processo chiave è la gentrification,  guidata ora dalla ricerca dell’autentico, che coinvolge due popolazioni: chi è e chi vede l’autentico. Chi vede ha sufficiente mobilità e distanza per discernere dove è l’autentico, ma anche per ricercarlo. I gentrifiers consumano l’esperienza del vivere nel quartiere povero nel quale si trasferiscono, mentre chi vi vive da tempo, semplicemente lo abitano.  Nella Naked City, la storia può essere riletta come il conflitto tra “la città delle corporazioni” e “il villaggio urbano”.  I quartieri tradizionali del centro città hanno oggi difficoltà a mantenere la loro struttura, quindi la loro organizzazione sociale: la ricerca dell’autenticità, che guida un’élite, si impone sui tradizionali valori e comportamenti locali, banalizza distruggendo rapidamente la diversità. L’avanzare della speculazione per la realizzazione di quartieri detti storici e caratteristici trova debole contrappeso nel contemporaneo proliferare di enclave nuove di stili di vita alternativi, più spesso etnici, in genere nelle aree periferiche o di nuova (ed incompiuta) espansione urbana.  Tale appare secondo Zukin il fondamentale dualismo sociale determinato dagli stili di consumo, in assenza di politiche pubbliche che portino a contrastare questa particolare forma di mercificazione della città.

     


    4.  Dualismo e “globalismo” urbano


    Il transmigrante, abitante del quartiere “etnico” o membro dell’élite alla ricerca dell’autenticità, è così attore fondamentale della costruzione del paesaggio della megacittà. "I migranti stessi sono a loro volta causa di altri flussi che attraversano il pianeta e che vanno ad incidere nella vita economica, politica e culturale di tutte le società che ne sono investite. […] Oggi la migrazione non implica più, necessariamente, [una] rottura radicale” (Cesareo 2015, 70). La diffusione e l’accessibilità dei mezzi di trasporto internazionali, la disponibilità di mezzi di comunicazione istantanea a basso costo, consentono una interazione quotidiana tra chi è emigrato e chi è rimasto nel suo luogo di origine. Abbiamo visto come fino agli anni 1980 la percezione dell'immigrato e gli strumenti elaborati dalle scienze sociali per analizzare le situazioni migratorie rispecchiano in genere la posizione socialmente debole dei lavoratori immigrati. Progressivamente tuttavia, l'osservazione della "fuga dei cervelli", l'attenzione per il momento ed i meccanismi dell'emigrazione, vengono, come abbiamo visto, ad arricchire la prospettiva.

     Nei suoi studi pionieristici, Abdelmalek Sayad alla fine degli anni Settanta insiste sulla necessità di riflettere in sociologia, non solo sulle relazioni del migrante col nuovo contesto di vita, ma sul significato dell'emigrazione per la società di origine e per l'immigrato stesso. Analizza i legami tra l’immigrato algerino in Francia, la società di partenza, la società di arrivo, e propone il modello analitico della "duplice assenza". Pensare il fenomeno migratorio, egli sottolinea, significa pensare, non soltanto la presenza nella società di arrivo, ma anche l'assenza dalla società di partenza. L'emigrazione è perdita per la società di origine, una perdita non provvisoria. D’altra parte l’immigrato non si percepisce né come “di qui” né come “di laggiù”.  È doppiamente escluso. L’emigrazione porta lacerazione sotto i profili sociale, politico, spirituale.  Su tutto il percorso di inserimento personale, poi familiare, pesa lo strappo iniziale e la percezione della lontananza.

    Abbiamo visto come gli studi sociologici delle migrazioni orientati alla prospettiva “transnazionale”, dagli anni Novanta, invertano l’interpretazione: al modello della doppia assenza si sostituisce un modello della doppia presenza.  Il transmigrante è “figura caratterizzata dalla partecipazione simultanea ad entrambi i poli del movimento migratorio” (Ambrosini 2007, 43). Il migrante non è solo agente, sul quale pesano i determinismi , in particolare legati alla situazione di partenza, ma è anche attore dalle capacità strategiche affinate dalla complessità delle decisioni che deve prendere.  Ciò, ovviamente, in misura variabile a seconda delle sue risorse economiche, culturali, sociali e di personalità. La presenza nella società d’origine varia anche a seconda della durata della presenza, si affievolisce nelle seconde generazioni (Portes e Guarnizo 1999), caratterizza specialmente alcune diaspore o alcuni percorsi migratori storici. La migrazione, d’altra parte, è troppo spesso drammaticamente costretta e lacerante perché rispondere al modello della doppia presenza. Per questi motivi, il contributo empirico dell’approccio  transnazionale alla conoscenza dei fenomeni migratori viene spesso ridimensionato. Ponendo l’accento sugli attori individuali della globalizzazione, e sulla globalizzazione culturale dal basso, ha tuttavia suscitato un fruttuoso dialogo interdisciplinare che ha stimolato un rinnovamento della riflessione sociologica sui processi di globalizzazione nelle sue relazioni con la struttura sociale delle società, e in particolare, delle città nelle quali si concentrano i processi di immigrazione.

    Tali processi economici e culturali di integrazione globale confermano le tendenze ad un ridimensionamento della strutturazione in classi sociali, attribuite da alcuni all’allentamento delle relazioni di autorità caratteristiche delle strutture organizzative della grande industria, da altri all’affermarsi di stili di vita postmoderni portatori di identità fluide, postfordismo, da altri alla postmodernità?

    Secondo Saskia Sassen essi invece portano al consolidamento di classi denazionalizzate, caratterizzate non soltanto dall’accesso differenziato alle risorse, ma dalle culture e delle pratiche degli attori che la compongono.

    Il sistema economico globale offre un contesto strategico ampliato per sviluppare il potere personale e di gruppo.” La struttura pertanto è mediata da pratiche e culture Una classe denazionalizzata emerge da entrambi i tipi di processi cioè insieme di gruppi strategicamente intenzionati a cogliere le opportunità create dal funzionamento del sistema globale, essendo però nello stesso tempo limitati dai sistemi nazionali (Sassen 2008, 165).

    Lo stato transnazionale di professionisti e dirigenti suscita al cambiar del millennio una serie di indagini empiriche (Pijl 1998, Sklair 2001, Robinson 2004). S. Sassen individua almeno due altre classi “globali o parzialmente denazionalizzate”. La prima è quella dei funzionari statali che convergono in reti transnazionali. Si tratta di esperti in materie fondamentali nella geopolitica dell’economia globale: giudici, funzionari dell’immigrazione, funzionari di polizia. La seconda è quella “dei lavoratori e degli attivisti politici con scarse risorse, che comprende settori importanti della società civile globale, reti diasporiche, comunità e famiglie di immigrati transnazionali”.

    L’autrice insiste sul fatto che il “globalismo” di queste nuove classi non corrisponda a vero e proprio “cosmopolitismo”. Al di là dell’uniformità di stili di vita che lo potrebbe evocare, ciascuna di queste classi rimane radicata in ambienti localizzabili (centri finanziari, governi nazionali, microstrutture della vita quotidiana o della lotta politica) e segue logiche specifiche esterne allo spirito del cosmopolitismo: ricerca del profitto, questioni di governo, conflitti locali determinano principalmente le loro scelte. Seppur non cosmopolite, “si può pensare che gettino un ponte tra un ambiente densamente nazionale, nell’ambito del quale la maggior parte della vita politica, economica e cittadina continua a svolgersi, e le dinamiche globali che “denazionalizzano” componenti particolari di tali scenari nazionali” (Sassen 2008, 166).