Schema della sezione

  • Riferimenti ulteriori si trovano nelle slide delle conferenze Heinelt:  https://e-l.unifi.it/pluginfile.php/849905/course/section/108957/Local%20government%20systems_Madrid.ppt?time=1571821497399

    Negli ultimi decenni gli studi sulle trasformazioni della democrazia e delle politiche locali si sono fortemente sviluppati. Ciò è avvenuto anche nei paesi europei che, per la loro tradizione centralista, consideravano l’arena locale come area residuale dell’analisi politica. Tali studi hanno l’obiettivo di verificare i risultati delle profonde riforme che hanno investito i comuni, come veri e propri «laboratori» istituzionali, ma anche di descrivere le nuove modalità dell’azione pubblica che si delineano a questo livello di governo. In molti casi si tratta anche di descrivere e denunciare le conseguenze del mutamento di modello interpretativo della democrazia al quale le policies locali danno concretezza.  I problemi, gli approcci, i modelli attorno a cui si sviluppa il dibattito internazionale sulle trasformazioni della democrazia locale e sulle modalità di definizione delle politiche urbane sono variegati quanto le tradizioni nazionali di ricerca in sociologia politica. Ad illustrazione dell'impatto dei mutamenti appena evocati sulle modalità dell'azione pubblica, si approfondisce il caso delle pratiche di pianificazione territoriale, momento chiave del governo delle trasformazioni e della promozione della qualità di vita nelle grandi città. 

     

    1.     Decentramento e "multi-level governance"            

     

    1.1 Quanto contano enti e amministratori locali?

    Sebbene la nozione di «locale» venga talvolta estesa a tutte le istituzioni politiche e amministrative non centrali (quindi anche alle regioni), in genere il termine «ente locale» nel mondo occidentale designa quel primo livello territoriale di rappresentanza politica e di organizzazione amministrativa non specialistica assimilabile al comune, il livello di cui tratteremo in questo capitolo. Comuni, municipalità, città: questi sono i riferimenti lessicali ai quali corrisponde nella realtà italiana. .

    La questione del peso del governo locale nel sistema politico ha a lungo mobilitato l’attenzione scientifica, in particolare nei paesi con una tradizione centralista. Con il decentramento quasi rivoluzionario avvenuto in questi paesi, con l’assunzione al livello comunitario del principio di sussidiarietà e di indirizzi di programmazione fondati sullo «sviluppo dal basso», con la diffusa convinzione dell’inarrestabile risveglio dei localismi, l’interesse si è oggi spostato dal «quanto» al «come» conta il governo locale. Il problema del «quanto», tuttavia, non è superato.

    Box 1.

     Sussidiarietà

     La sussidiarietà è assunta come principio normativo di organizzazione verticale del sistema politico europeo nel Trattato di Maastricht, all’articolo 5, in quel caso in riferimento alle relazioni tra stato nazionale e organi dell’Unione: «Nei settori che non sono di sua esclusiva competenza la Comunità interviene, secondo il principio di sussidiarietà, soltanto e nella misura in cui gli obiettivi dell’azione prevista non possono essere realizzati dagli stati membri e possono dunque, a motivo delle dimensioni e degli effetti dell’azione in questione, essere realizzati meglio a livello comunitario».
     
    A tal principio ci si riferisce oggi nei documenti pubblici europei, ma anche nazionali, per ridefinire le relazioni tra altri livelli di governo, in particolare tra enti locali e governi centrali (ad esempio dall’ottobre 2001 nell’art. 118 della Costituzione italiana).La prospettiva rompe quindi con il quadro analitico tradizionale fondato sulle nozioni di decentramento amministrativo o di decentramento politico (o i loro equivalenti semantici di deconcentrazione o devoluzione); la terminologia consacra il processo di consolidamento del segmento locale dei sistemi politici, pur riservando, come si potrà notare, all’ente di livello territoriale superiore la capacità di definire le relative possibilità di «realizzare» con successo gli obiettivi dell’azione pubblica.
     
    A tale nozione «verticale» di sussidiarietà, negli stessi documenti pubblici, si associa sovente un’accezione «orizzontale» nella quale l’intervento dell’ente pubblico viene concepito (quindi ridimensionato) come suppletivo o correttivo dell’attività e dell’auto-organizzazione delle famiglie, delle associazioni e delle imprese.

    Qual è, nel quadro della ristrutturazione statale e della globalizzazione economica, la capacità dei governi locali di influenzare in concreto la condizione dei cittadini? Più precisamente: può un municipio con maggiori poteri incentivare la partecipazione (elettorale e non solo) dei cittadini alla vita politica e sociale? Può una classe politica locale investita di maggiori competenze essere più rappresentativa degli interessi della popolazione e più responsabile del proprio operato nei confronti degli elettori? Può un governo locale nell’era della globalizzazione economica agire efficacemente, con risorse ridotte, per il benessere dei suoi cittadini? L’influenza delle scelte organizzative e politiche ispirate agli ideali liberisti sul peso complessivo dei governi locali nella società è sottolineata da prospettive assai diverse. La restrizione delle capacità di intervento a livello locale in conseguenza delle riforme dei sistemi previdenziali e di assistenza era già stata illustrata nella vasta letteratura americana sulla fiscal crisis delle grandi città, che negli anni Ottanta ha ispirato anche alcuni studi europei. Vi si evidenziava l’incapacità dei governi urbani di fornire servizi sociali decorosi ed efficienti ai propri cittadini, avanzando l’idea che soltanto un governo centrale fosse in grado di gestire le risorse economiche e politiche necessarie ad attuare politiche redistributive funzionanti.

    Tuttavia queste voci sono piuttosto isolate. Sia a livello di istituzioni sovranazionali  ( sia le Nazioni Unite che la Commisisone Europea fondano ad esempio le strategie di sviluppo locale e di riequilibrio territoriale proprio sulla mobilitazione delle risorse locali attuata dai governi locali), sia a livello di letteratura critica si ritiene che il governo locale, anche nel contesto attuale, possa e debba contribuire al benessere e alla crescita democratica delle popolazioni. Anche nel contesto di riduzione della spesa e delle prestazioni, di privatizzazione e, in alcuni paesi, in una congiuntura politica favorevole al ri-accentramento piuttosto che al decentramento funzionale, è vero che il governo locale mantiene un suo peso funzionale imprescindibile. Come ricorda Goldsmith,  il governo locale serve da veicolo all’espressione delle preferenze dei cittadini per quei servizi che non possono essere acquistati privatamente [...]. I governi locali devono definire delle priorità tra differenti voci di spesa: il modo in cui lo fanno può avere un impatto considerevole sul benessere individuale. Il modo in cui il governo locale determina l’uso del suolo può avere conseguenze enormi sul benessere individuale. Analogamente, tramite certi interventi e la combinazione di tassazione e di spesa che ne derivano, i governi locali possono rendere le loro comunità più o meno attrattive per l’investimento da parte del settore privato, con un forte impatto sul benessere della comunità [Goldsmith 1995, 235-236].

    Valutare il grado d’influenza reale del governo locale nel sistema politico è comunque una questione sociologica complessa. Per dare conto della varietà di approcci possibili, presenteremo nel prossimo paragrafo alcuni esempi contrastanti di analisi.

     

    1.2. L’influenza dei governi locali in una prospettiva comparata: approcci e strumenti
     

    ■ Approcci di tipo strutturale.

    L’approccio strutturale classico parte da considerazioni di natura giuridica, ma propone una tassonomia che mette in rilievo il grado di autonomia e di potere espresso nella norma. Questi studi individuano quattro tipi di relazioni centro/periferia, secondo due dimensioni:

     1)    le funzioni delegate alla periferia dal centro;

     2)    la capacità lasciata alla periferia di assumere iniziativa.

     Le quattro classi che ne derivano si differenziano per il possesso o meno di una o di entrambe le proprietà descritte:

     –       la prima classe è caratterizzata sia da molte funzioni delegate che da molta iniziativa lasciata nell’esercitarla e viene definita ad alta autonomia;

     –       a questa classe fa da contraltare la classe a bassa autonomia, che comprende le situazioni in cui le funzioni delegate sono scarse e la capacità di decidere di propria iniziativa è limitata.

     Tra queste due classi ci sono i due tipi intermedi: l’uno con funzioni delegate ma scarsa iniziativa; l’altro con iniziativa ma poche funzioni delegate.

     Sempre strutturale è l’approccio che parte dai fattori che limitano il governo locale. Tali fattori sono: 1) di tipo economico e sociale; 2) di tipo legale e politico.

     Tra i fattori di tipo economico e sociale si evidenziano:

     –         le limitazioni al reperimento di risorse al livello locale;

     –       l’esistenza di attori economici potenti capaci di controllare l’agenda politica;

    –       la presenza di movimenti sociali locali capaci di resistere alle politiche locali o di influenzare la loro implementazione.

    I fattori di tipo legale sono quelli, già segnalati, relativi a funzioni e capacità di iniziativa attribuiti ai comuni. Quelli politici sono invece attinenti alla qualità della leadership e alla sua capacità di imporsi sia all’interno che all’esterno della comunità locale.

    Un confronto sistematico di tipo strutturale tra diversi paesi dell’OCSE è stata ad esempio proposta di recente da Sellers [2006].  Vi si intende misurare il grado di statalismo nelle relazioni politico-amministrative (A) e in quelle fiscali(B)  con i livelli superiori di governo e lo statalismo, nonché il grado di statalismo leggibile nella struttura del governo locale (C). Gli indicatori presi in considerazione, sui quali appaiono disponibili dati nei ventidue paesi considerati, sono i seguenti:

    A)      assenza o meno di garanzia costituzionale dell’autonomia locale; assenza o meno di rappresentazione collettiva degli enti locali; proporzione dell’impiego pubblico locale sull’impiego pubblico totale; spesa degli enti locali nella spesa pubblica totale; supervisione degli eletti locali dai livelli superiore di governo; designazione dei responsabili del governo locale dai livelli superiori di governo; controllo della forma del governo locale dai livelli superiori di governo;

    B)      importanza dei trasferimenti nelle entrate dei governi locali; controlli dei prestiti locali; rapporto tra entrate garantite dalle tasse locali sull’insieme delle entrate fiscali; autonomia fiscale locale;

    C)      elezione del sindaco; durata del suo mandato; durata dell’assemblea comunale; capacità di veto tra esecutivo e legislativo ; rapporto dipendenti comunali e popolazione del comune; rapporto tra dipendenti reclutati a livello locale sul totale dei dipendenti comunali.

    Fig.1


    Un esempio di classificazione dei regimi locali sulla base del solo indicatore del rapporto tra spesa pubblica locale/spesa pubblica totale

     

     ■ Approcci incentrati sull’azione.

    Dagli studi organizzativi da una parte e dalla network analysis dall’altra derivano invece prospettive incentrate non sulla struttura ma sull’azione. Secondo tali approcci, il rapporto tra centro e periferia è prodotto dalle pratiche politiche quotidiane nel quadro di un sistema giuridico e culturale in perenne mutamento sotto l’influenza di tutti gli attori, forti o deboli. Grémion [1976] spiega ad esempio la crescita dell’influenza del segmento locale nel sistema politico francese degli anni Settanta con la capacità dei leader locali di sfruttare i numerosi spazi di incertezza lasciati liberi da un sistema fortemente centralizzato e burocratizzato [Crozier 1963]. Si può interpretare genericamente il rapporto tra local e central government come un rapporto competitivo tra due soggetti indipendenti, in cui entrambi gli attori dispongono di risorse (costituzionali e giuridiche, politiche, regolative, professionali e finanziarie) per rafforzare la propria posizione e acquistare nuove possibilità di azione. In un equilibrio basato sulla reciproca contrattazione. Si può alternativamente considerare che nessuna delle due parti possa sopraffare l’altra in un gioco a somma zero oppure mettere in discussione la simmetria del rapporto così descritta, enfatizzando l’ineguale distribuzione delle risorse tra stato e comuni, e giungendo ad elaborare modelli interpretativi più complessi che tengano conto delle diverse realtà [Rhodes 1981; 1986].

    ■ Approcci incentrati sull’efficacia.

    Un altro approccio non strutturale è quello incentrato non sulle relazioni fra attori, ma sulla loro efficacia. Alcune recenti riflessioni sull’evoluzione del sistema inglese ripropongono la questione del peso specifico del centro e della periferia analizzando il funzionamento del governo locale nelle sue dimensioni fondanti. Peso del governo locale e qualità della democrazia locale non possono essere distinti. Tutti i fautori, anche contemporanei, delle autonomie locali trattano infatti uno o più dei quattro elementi attribuiti in senso positivo dai teorici classici al governo locale, secondo cui esso avrebbe la capacità di:

    1)    favorire la partecipazione;

     2)    garantire servizi più efficienti;

     3)    fornire un equilibrio al potere centrale;

     4)    incentivare una più efficace rappresentanza degli interessi.

    Le nuove modalità della definizione e della messa in opera delle politiche pubbliche che vedono intrecciarsi in una trama complessa i livelli nazionali e locali, il privato e il pubblico, non costituiscono di certo, affermano alcuni, condizioni favorevoli allo svolgimento delle due ultime funzioni appena citate (la funzione di contrappeso al potere centrale e quella di diversificazione concreta della rappresentanza) [Stoker 1991; 1996]. Si può inoltre mettere in dubbio – pur non negando la maggiore vicinanza (anche fisica) tra elettori ed eletti – la capacità delle amministrazioni locali di incentivare la partecipazione diretta, invitando a riflettere sulla minore affluenza alle urne nelle consultazioni amministrative, sulla mancanza di effettiva competizione politica a livello locale, sulla predominanza di questioni di portata nazionale nel dibattito politico. Infine non sembra acriticamente accettabile la tesi secondo cui la produzione e gestione dei servizi a livello periferico sia più efficace. Tale avvertenza critica che scaturisce spesso dall’osservazione di contesti specifici, come quelli britannici, ricorda in breve che l’importanza delle unità periferiche di governo deve essere valutata attraverso molti indicatori, tra cui indicatori di «efficacia» politica riferiti ad una definizione specifica di buon governo locale.

    ■  Approcci strutturali integrati.

    In uno studio orami classico, Page e Goldsmith [1987] hanno suggerito una batteria sintetica di temi sulla quale può essere impostato un confronto tra situazioni. La proposta è quella di un approccio strutturale integrato che recepisca alcuni suggerimenti delle analisi non strutturali, ma rimanga orientato al confronto tra sistemi nazionali. Vi si evidenziano:

    1)    la posizione costituzionale e giuridica nell’ordinamento statale;

    2)    le funzioni attribuite alle amministrazioni locali;

    3)    il loro grado di autonomia;

    4)    la capacità impositiva ad esse riconosciuta dal regime fiscale;

    5)    la capacità di mediazione e contrattazione politica delle élite locali. La capacità di accesso al centro da parte delle élite locali è, affermano gli autori, un elemento determinante del peso delle comunità locali: significa risorse finanziarie, opportunità di sviluppo, capacità di integrazione interna. La descrizione delle carriere del personale politico tra centro e periferia diventa allora una tappa importante di analisi. Il cumulo dei mandati (che costituisce la regola, ad esempio, nelle carriere politiche francesi) facilita la costruzione di carriere multi-livello, quindi la presenza nella classe politica locale di eletti dotati di ampie «risorse d’influenza», tra cui una buona capacità di accesso al «centro» del sistema, contrariamente a quanto avviene dove si sviluppano carriere politiche separate tra centro e periferia. Tarrow [1977] aveva tuttavia osservato nel suo studio comparato sui sindaci francesi e italiani che il partito di massa poteva offrire al sindaco italiano un altrettanto efficace accesso alle risorse centrali.

    Tale capacità di contrattazione politica delle élite locali fa sì che alcuni sistemi politici si caratterizino per un forte "localismo politico", mentre il "localismo giuridico" misurato sulla base delle competenze dei comuni può essere invece molto basso.

     

    1.3  Geografia dei sistemi politico-amministrativi locali

    Le osservazioni precedenti hanno già messo in luce alcuni elementi di omogeneità, ma anche alcune forti divergenze nelle caratteristiche fondamentali dei governi locali occidentali. Nei paesi dell’Unione europea, in particolare, la struttura del governo locale e le sue modalità d’azione sono oggi caratterizzate da soluzioni sensibilmente differenti, dovute a determinanti storiche e scelte politico-giuridiche che ne hanno plasmato l’attuale configurazione.

    ■ I modelli di riferimento tradizionali nella comparazione combinano alcune considerazioni storiche sulle culture amministrative con analisi giuridiche sullo stato attuale delle relazioni tra livelli di governo. Tra queste citiamo per esempio gli studi di Bennett (esclusivamente riferiti all’ambito europeo), che assumono come discriminanti i due cleavages della Riforma protestante e delle conquiste napoleoniche [Bennett 1989; 1993]. In questa interpretazione, Riforma significa rapida secolarizzazione dell’amministrazione, che porta l’Europa protestante (settentrionale e occidentale) a contrastare con i persistenti tratti di gerarchia e separatezza tipici dell’amministrazione nella più cattolica Europa del Sud e dell’Est. La conquista napoleonica (più ancora che la Rivoluzione francese) costituisce poi una vasta area di influenza, formata da Francia, Italia, Belgio, Olanda, da buona parte dell’ex Jugoslavia e dalla Prussia, ma anche dalla Spagna, dal Portogallo, dalla Turchia, dall’Austria e dall’Ungheria; in quest’area il drastico decentramento della Rivoluzione fu rapidamente sostituito dal cosiddetto «sistema fuso», nel quale prefetto e sindaco sono rappresentanti decisivi del governo centrale, e nel quale la burocrazia tende ad inibire la rappresentanza e l’autonomia locale, mentre la forte personalizzazione degli esecutivi favorisce tuttavia la visibilità dei comuni. In Europa, i paesi di sistema fuso sono contrapposti ai paesi scandinavi da una parte (la Norvegia e la Svezia sono particolarmente rappresentativi), e alla Gran Bretagna dall’altra. Il modello scandinavo e quello britannico sono definiti «sistemi duali». Il modello scandinavo differisce dal modello britannico per la presenza di un organo esecutivo influente (un organo collettivo di governo guidato da un eletto) e per una cultura di «politica contadina» favorita dai movimenti popolari e dalla distanza dal governo centrale. In entrambi tuttavia i soggetti chiave sono le commissioni formate all’interno dei consigli comunali.

     ■ Le tipologie più note prendono quindi in considerazione le «aree di influenza» di culture nazionali che hanno determinato la storia politico-amministrativa di vaste regioni del mondo occidentale. Secondo la tripartizione classica esisterebbero tre tipi generali di rapporto tra centro e periferia nelle democrazie occidentali [Hesse-Sharpe 1991]:

    1)    nel primo gruppo, detto «franco group», rientrano i sistemi di tradizione napoleonica (Francia, Spagna, Italia, Portogallo, Belgio e per certi versi la Grecia): in essi si troverebbero elevata autonomia politica a livello locale, ma con autonomia giuridica relativamente debole;

    2)    nel secondo gruppo si collocano i paesi anglosassoni (Usa, Regno Unito, Irlanda, Canada, Australia e Nuova Zelanda), nei quali si registrano bassi livelli sia di autonomia politica sia di autonomia giuridica;

    3)   il terzo gruppo, concentrato nell’Europa centro-settentrionale, comprende la Scandinavia, l’Olanda, le Repubbliche federali tedesca, svizzera e austriaca, ed è caratterizzato da alti livelli di autonomia politica e giuridica.

     

    Box 2

     Sistema duale e sistema fuso

     

     

     

     

    Il confronto tra il grado di autonomia politica e il grado di autonomia giuridica tipica dei diversi contesti nazionali è stato suggerito guardando alle concrete modalità del decentramento da Page e Goldsmith [1987] nello studio comparato già citato dedicato a sette paesi europei. Dal confronto veniva sottolineato invece il semplice contrasto tra gli stati unitari del Nord e del Sud Europa, prima ancora della tripartizione classica.

    Negli stati del Nord Europa, che includono secondo noi la Gran Bretagna, la Danimarca, la Norvegia e la Svezia, il governo locale ha tradizionalmente svolto funzioni molto più estese che nel Sud, vale a dire in Francia, in Italia e in Spagna, dove il governo locale aveva responsabilità su una fetta limitata di funzioni fino alla fine degli anni Settanta, fino al momento in cui il governo locale (non soltanto e non sempre i comuni) ricevette funzioni addizionali. Le differenze nel grado di discrezionalità di cui godono i comuni nei sette paesi che abbiamo studiato non sono chiare. Ma il tipo di limitazioni alla discrezionalità in Scandinavia e in Gran Bretagna differisce da quello caratteristico degli stati del Sud Europa; in questi ultimi intervengono norme generali, leggi e regolamenti (regolazione statutaria), mentre nei primi le decisioni delle autorità locali sono prodotte anche con l’intervento di rappresentanti del governo centrale nelle prime fasi del policy process (regolazione amministrativa). La forza dei canali diretti di accesso, che hanno per base l’importanza della politica locale e della legittimazione locale nella costruzione delle carriere nazionali, che favoriscono legami stretti tra il centro e alcune località tramite il partito o le burocrazie, distingue Nord e Sud [ibidem, 161-162].

    Page [1991] successivamente definisce la differenza tra Nord e Sud d’Europa come la differenza tra un "localismo politico" al Sud ed un "localismo giuridico" al Nord. Dove si parla della prevalenza dell’elemento politico, ci si riferisce ad una forte influenza delle élite politiche localmente espresse nel quadro di una scarsa legittimazione giuridica dell’autonomia locale, mentre nell’altro caso si sottolineano le garanzie formali e le deleghe esplicite.

    Allargando l’analisi ad altri paesi, Goldsmith [1999] ha proposto un tentativo di aggiornamento della propria riflessione comparata, sempre sulla base di queste distinzioni fondamentali. Nei paesi dell’Europa settentrionale, egli afferma, la posizione della «periferia» si rafforza con la sua vocazione funzionale alla gestione di servizi sociali e sanitari secondo criteri di efficienza ed efficacia; il localismo di tipo giuridico si consolida con l’affermazione del principio di sussidiarietà, specialmente in Germania e nella regione scandinava, e con la diffusione delle pratiche di concertazione corporativa. Per l’Europa meridionale, vengono evidenziate le tendenze al decentramento operate in Francia e in Italia, ma nello stesso tempo permarrebbe una visione delle relazioni tra stato e autonomie che vincola l’iniziativa funzionale dei municipi, strettamente dipendente dai meccanismi del localismo politico. Queste osservazioni vanno riconsiderate alla luce delle profonde riforme dell’assetto statale introdotte in Italia dalla legge 142/90 alla revisione del Tiolo V della Costituzione. Ragionamento a parte viene effettuato dall’autore sulla Gran Bretagna. Secondo Goldsmith, infatti, da un lato la dettatura esplicita per legge delle competenze limita molto l’autonomia delle collettività locali, dall’altro la funzionalità all’interno dello stato sociale e la gestione congiunta con livelli superiori di governo di determinati servizi avvicinano il rapporto centro/periferia britannico alle strategie di governance dei paesi nordici. La collocazione dei paesi europei sugli assi costituiti dalle due dimensioni del grado di localismo politico e giuridico sarebbe quindi leggermente diversa da quanto suggerito dal modello ternario più classico.

    Anche il lineare confronto prettamente strutturale sviluppato da Sellers, precedentemente citato (2006),  porta a ridimensionare i modelli più classici per quanto riguarda i paesi europei. Secondo Sellers, fattori decisivi di differenziazione appare la numerosità delle popolazioni nazionali e l’estensione del territorio. E’ più facile far funzionare una struttura centralizzata in paesi “piccoli”, nei paesi più “grandi” i localismi sono maggiormente sostenuti. Il contrasto appare così netto, a partire dell’indice sintetico di statalismo che ha costruito tra USA,. Canada, Australia, e Grecia e Belgio. La dimensione non è tuttavia sola ad incidere: lo dimostra la posizione particolare della Svezia tra i paesi nordici, che si viene ad avvicinare ai paesi di media dimensione, tutti tuttavia piuttosto similmente collocati in questa scala localismo-statalismo.

    La distinzione tra localismo giuridico e localismo politico che orienta in fondo i modelli più classici riecheggia la distinzione più classica della sociologia politica statunitense, quella tra le civic cultures e le altre (parochial cultures o subject cultures [Almond-Verba 1963; Verba 1965]). L’idea di matrice weberiana di una minore qualità della democrazia nelle aree modellate culturalmente dal cattolicesimo è una sorta di riferimento rituale (più o meno esplicito) nelle analisi comparate dei sistemi politici locali. Questo riferimento obbligato, rintracciabile in tutte le tipologie classiche appena ricordate, anche non dicotomiche, è tuttavia utilizzato con sempre maggiore cautela, mentre si sottolineano con crescente enfasi i movimenti uniformizzanti rilevabili nelle profonde riforme amministrative e istituzionali appena introdotte o ancora in discussione.

     

    Fig. 2 Localismo e dimensioni strutturali (Fonte: Sellers 2006)

     

     

     1.4 Il rappresentare nella sfera politica locale
     

    La privatizzazione, l’esternalizzazione dei servizi, la ricostruzione dei sistemi di partiti e, in molti casi, i processi di decentramento e di attuazione del principio di sussidiarietà hanno avuto come conseguenza una drastica trasformazione dei ruoli degli eletti, in particolare nei paesi europei. In molti di questi paesi, riforme istituzionali radicali hanno illustrato queste tendenze, hanno ridefinito (e ridefiniranno nei prossimi anni) la configurazione delle competenze, in genere enfatizzando la visibilità dei sindaci; hanno cercato di controllare l’instabilità degli esecutivi; hanno introdotto forme diverse di consolidamento del polo burocratico.

    Due sono le direzioni di innovazione intraprese dalla fine degli anni Ottanta che portano a ridisegnare similitudini e differenze tra i sistemi di governo locale in Europa. Si è da una parte ovunque progressivamente cercato di rendere più visibile e di rafforzar le leadership locali, politica e amministrativa, alla ricerca di maggiore efficacia e rispondenza, e nel tentativo di ricostituire su basi nuove il legame tra cittadini e politica. Si sono poi profondamente cambiate le operazioni che costituiscono l’attività quotidiana degli enti locali, con la delega, sotto diverse forme, di molte funzioni ad organismi monofunzionali o plurifunzionali esterni agli enti locali  l’innovazione amministrativa è  stata declinata specificamente all’interno dei singoli paesi, per il peso delle norme e delle culture, per l’influenza di diversi leader d’opinione, ma i riferimenti culturali, diversamente tradotti, sono spesso unici: è il discorso  del New Public Management, sostenuto dall’OCSE, profondamente intriso di neoliberismo.

    L’idea che i cittadini di un comune debbano poter eleggere direttamente il loro sindaco è di recente diventata luogo comune della cultura politica europea. Totalmente estranea alla tradizione in molti paesi dell’Unione Europea, l’elezione diretta del sindaco trovava realizzazione completa soltanto in Grecia e in qualche Land tedesco e imperfetta in Spagna e in Francia, mentre altrove o il sistema dominato dalle commissioni permanenti non prevedeva figura preminente oltre a quelle di presidente dell’assemblea e delle commissioni, tutt’al più un sindaco con ruolo cerimoniale come nel caso inglese,  o il sindaco era eletto in seno all’assemblea ed esprimeva  l’equilibrio di maggioranza raggiungibile sulla base del risultato elettorale. Facevano, come continuano a fare eccezione, i casi dei Paesi Bassi e del Belgio dove i sindaci sono nominati dalla corona, nel secondo caso tuttavia in seno e su proposta del Consiglio.  Nell’arco di pochi anni l’elezione diretta del sindaco è stata introdotta in Italia, in tutta la Germania, sperimentata e progressivamente estesa in Gran Bretagna e in Norvegia, mentre dappertutto si afferma la tendenza a consolidare la dimensione esecutiva del ruolo del primo cittadino. Tale rafforzamento porta tendenzialmente nei paesi nei quali le commissioni erano organi determinanti nel processo decisionale a forme inedite di parlamentarismo locale , dove il sindaco può assumere la figura di un primo ministro locale (come è il caso in alcune esperienze britanniche), o rimane, come in Svezia, il Presidente di una commissione, una commissione principale dai poteri allargati. Più spesso tuttavia, è il caso in Germania, in Italia, in molti paesi dell’Est Europa, con l’elezione diretta si istituisce il presidenzialismo locale che era tipico del sistema francese (nel frattempo soltanto leggermente emendato).

    La rappresentanza locale costituisce così in tutte le democrazie occidentali un luogo fondamentale di mutamento [Caulfield-Larsen 2002]. Parallelamente, l’affluire di newcomers nella classe politica (attratti dalle dimensioni nuove dei ruoli, o più semplicemente chiamati a sostituire un personale politico per vari motivi non più disponibile) ha attribuito alle assemblee elettive locali e soprattutto agli esecutivi la fama di aree di reclutamento «professionale» caratterizzate da un certo rinnovamento. In conseguenza di queste trasformazioni strutturali e normative, in tutti i paesi europei appartenere ad un’assemblea elettiva locale, o ad un esecutivo locale non ha più il significato che aveva vent’anni fa; cambiano infatti la posizione nella «carriera» politica, lo status sociale, i rischi e le aspettative personali, le risorse istituzionali e le responsabilità personali. Anche per la debolezza funzionale persistente in alcuni settori delle formazioni politiche, gli schemi di selezione e di formazione tuttavia spesso non si sono adeguati a queste trasformazioni strutturali.  Il caso italiano illustra, accanto ad alcuni elementi di novità (minor peso del partito nella formazione – ma non altrettanto nel reclutamento - , minor lunghezza delle carriere elettive, maggiore localismo, una maggiore proporzione di sindaci a tempo pieno), la permanenza di molti tratti storici del reclutamento (poche donne e pochi giovani malgrado qualche progresso, una proporzione ancora troppo contenuta di laureati), che non possono che limitare la capacità di rispondere alle diverse istanze locali (Magnier 2012).


    2.  Le nuove modalità dell'agire pubblico locale:  il caso della pianificazione urbana

     

    L’organizzazione del territorio urbano e la definizione dei principi e delle procedure di realizzazione delle infrastrutture in cui si inscrive la vita cittadina costituiscono l’attività più importante di un’amministrazione locale. La pianificazione degli spazi a livello comunale ci porta al cuore del problema posto dalla letteratura sulla governance urbana e ci aiuta a comprendere le recenti trasformazioni dell’azione pubblica locale.

    2.1. Piano e complessità

    Nel discorso oggi diffuso sulla pianificazione territoriale traspare l’atteggiamento ambiguo del ceto politico  (non di rado anche spesso dei sociologi) sulla stessa governance. Spesso si tende a velare la pianificazione come azione chiave di governo sotto l’etichetta (pleonastica) di ‘pianificazione strategica’. In realtà, il piano è strumento di governo che associa analisi preliminare  e progetto politico, e come tale non può non essere ‘strategico’. Nella pianificazione, il progetto politico (che consiste in un’insieme di azioni) trova radice in un’analisi sistematica delle risorse disponibili per realizzare obiettivi definiti. Tali obiettivi riflettono una definizione “accentrata” dell’utilità sociale, che può risultare dalla riflessione individuale del decisore (intuitiva, politica, vale a dire fondata sulle conoscenze acquisite mediante i contatti con gli esponenti della società locale) o su un’analisi sistematica che lo stesso decisore ha commissionato ad esperti.

    Perfino in ciò che sono in fondo le sue interpretazioni più pessimistiche e riduttive, ispirate al tema della razionalità limitata, la pianificazione di per sé entra in contraddizione con l’idea chiave che sottosta alla nozione di governance, che convenga lasciare che le decisioni siano il prodotto delle complesse (e nei loro risultati imprevedibili) pressioni di, o contatti tra, stakeholders, quale sia la definizione che del termine si adotti.

    Renate Mayntz [1998], percorrendo lo sviluppo teorico del modello della governance  ne individua le premesse nella fase di riflessione sui problemi di attuazione delle politiche pubbliche che seguì l’euforia pianificatoria degli anni Sessanta. I primi successi del discorso sulla governance corrispondono con coerenza ad un diniego radicale del piano come strumento di governo. Le rinnovate critiche sociologiche all’illuminismo” pianificatorio pongono l’accento negli anni Settanta sulla complessità crescente della società e l’imprevedibilità dei suoi cambiamenti; che negli anni Ottanta portano spesso al rifiuto totale del piano e al leitmotiv della “pianificazione per progetti” in urbanistica.

     Il modello interpretativo marxista – che allora domina nell’analisi sociologica della pianificazione urbana considera la pianificazione territoriale come l’espressione più chiara dell’utilizzo dell’attività burocratica come strumento e maschera dello sfruttamento capitalista. Castells nella Questione urbana [1970] lo riassume in questi termini:

    "Nell’apparato politico-giuridico, la pianificazione urbana tutela il modo di produzione per gli interessi della classe dominante [...] È strumento di dominazione e risoluzione delle contraddizioni in seno alle classi dominanti; di repressione e integrazione delle classi dominate".

    Lefebvre negli stessi anni declina diversamente ma con la stessa veemenza la critica marxista alla pianificazione, guidata dalla ricerca del profitto e condannata dai propri errori, quelli tipici dell’«intelligenza analitica» [1970b]. Gli errori, accusava già Adorno, del funzionalismo:

    "Il momento illusorio della funzionalità fine a se stessa emerge dalla riflessione sociologica più elementare. Ma di essa sono parte integrante delle irrazionalità, ciò che Marx chiamava i suoi faux frais, giacché, malgrado la pianificazione, oggi come ieri il processo sociale si svolge sostanzialmente alla cieca, in modo irrazionale. Un’irrazionalità di cui portano il marchio tutti i fini e, dunque, anche la razionalità dei mezzi tramite i quali quei fini dovrebbero essere raggiunti [Adorno 1947; 1977]".

    Negli anni Ottanta, diventa convinzione generalizzata che i sistemi di pianificazione urbana non siano ormai in grado di far fronte alle trasformazioni strutturali che condizionano lo sviluppo fisico e la gestione politica dei grandi insediamenti urbani. La contrattazione con le imprese private per la realizzazione di grandi progetti o anche solo di piccoli interventi, indipendentemente dalla procedura formale di pianificazione, tende così a diventare l’elemento prorompente dello scenario: i sistemi urbani crescono o cambiano, nei loro tratti fisici, a seconda dei progetti che si riescono via via a realizzare. La vitalità incoerente di alcune città americane prende valore di illustrazione di un processo di sviluppo dotato di forte spontaneità, quello della pianificazione per progetti, teorizzato anche come inevitabile da alcune scuole di urbanisti, per i quali la «città collage», che si compone giorno dopo giorno secondo un processo cumulativo di interventi privati [Rowe 1979], diventa la sola formazione urbana realizzabile. Tale impostazione trova sostegno non solo nelle critiche dei decenni precedenti all’ideologia urbanistica appena ricordate, ma anche in più recenti teorie della complessità. Si denuncia l’incapacità della pianificazione a dominare sistemi «ipercomplessi» come gli attuali sistemi territoriali [Morin 1984], caratterizzati dalla molteplicità dei luoghi di decisione e dall’andamento caotico dei processi. Sotto un profilo più tecnico, alcuni urbanisti sottolineano il contrasto tra una impostazione della pianificazione spaziale rigidamente organizzata sul principio della gerarchia tra livelli territoriali di governo (dal locale al nazionale), quindi tra piani, e i meccanismi nuovi di multi-level governance che esaltano la capacità di iniziativa dei livelli territoriali «inferiori» [HealeyWilliams 1993]. Le critiche portano a due atteggiamenti diversi: la negazione della pianificazione da un lato, e la sua riproposizione con strumenti analitici e giuridici alternativi.

    In questa prospettiva si propone una rappresentazione che vede nello spazio post-industriale nient’altro che un’intersezione di reti economiche e sociali di dimensione internazionale, connesse da flussi di informazioni sempre più indifferenti alla fisicità dei luoghi e al peso delle distanze. In uno scenario di questa natura, pensare di esercitare un controllo mediante il piano rappresenta una pretesa insensata: un retaggio di utopia regressiva e autoritaria, che pretende di ricondurre lo spazio a un insieme di comunità locali organicamente compatte e funzionalmente ordinate. Semmai un interesse specifico deve essere rivolto verso alcuni punti singolari del nuovo spazio post-industriale, specialmente verso luoghi ove si concentrano i simboli della nuova società, quali, ad esempio, le aree direzionali dei centri metropolitani. Per contro, l’intervento su questi punti deve rivestire il carattere della libera progettazione e non quello del controllo pianificatorio [Mela 1996, 127-128].

    La prospettiva neo-liberale che in gran parte contribuì nelle fasi iniziali al successo del discorso sulla governance viene negli anni Ottanta a convergere con questi filoni portando se non ad un rifiuto totale del piano, alla proposta di una pianificazione minimale, fondata sulla richiesta: richieste da parte di alcuni segmenti della società e richieste dei professionisti dell’edilizia nella trasformazione territoriale: l’azione di governo dovendosi limitare a garantire una coerenza di massima tra i progetti e possibilmente ad offrire le infrastrutture necessarie.


    2.2 Una pianificazione per tempi di governance ?

     La pianificazione per progetti ha mostrato rapidamente i suoi limiti prevedibili; dal punto di vista sociale, trattandosi di interventi sempre mossi da un interesse specifico che non può essere di categorie deboli; ma anche dal punto di vista dell’equilibrio finanziario e funzionale della città: spetta sempre al pubblico garantire le misure di sostegno e di accompagnamento definite in partnership territorialmente confinate al singolo progetto indipendentemente dal suo contesto socio-fisico. Ma molti fattori convergono nel mantenere viva la spinta implicita alla pianificazione per progetti. Nel grande come nel piccolo comune, è tale la discrepanza tra mezzi delle aziende private e capacità finanziarie dei governi locali che l’offerta di realizzare un’opera, in un’ottica di crescente competizione tra enti locali, viene interpretata come occasione insperata che merita molti sacrifici. In sistemi urbani densi, in un contesto di stagnazione demografica, recupero e grandi infrastrutture di mobilità sono le due chiavi della trasformazione urbana; la dipendenza dal privato in settori che richiedono soglie di investimento molto alte diventa dato strutturale della vicenda urbanistica, anche nei paesi con forti tradizioni di intervento pubblico diretto o indiretto nell’attività edilizia. Incide poi la volontà di visibilità della leadership locale, il grande progetto, più che il grande piano, permettendo ad un sindaco di lasciare traccia visibile nel territorio cittadino. In Europa, perfino le forme di finanziamento e la cultura amministrativapromossa dalle istituzioni dell'Unione  spingono in direzione di un ragionamento per «progetto».

    E’ quindi nella direzione della ricerca di un nuovo equilibrio tra piano e progetto che si muovono allora le innovazioni politico-amministrative.

     Negli ultimo vent’anni il discorso sulla governance si è così paradossalmente trovato a sostenere un ritorno in auge della teoria della centralità del piano, e più precisamente di “nuovi” piani territoriali. Questo ritorno del piano come strumento celebrato di governo, specialmente visibile nella pianificazione territoriale, traduce il tentativo non facile, di armonizzare il piano con atteggiamenti orientativi dell’azione pubblica improntati non più al controllo gerarchico ma alla cooperazione tra attori, interni ed esterni alle strutture statuali, è spesso proteso anche a salvare i fondamentali del modello socio-democratico in una congiuntura non favorevole; a mitigare le conseguenze dell’adozione di prospettive neo-liberali nelle pratiche di governo, reintroducendo coerenza tra le trasformazioni determinate dal progetto privato e obiettivi di giustizia sociale e di inclusione, nonché qualche sistematicità nell’analisi dei contesti che influenzano lo sviluppo delle politiche pubbliche.

     

    2.3. La "globalizzazione" della cultura di piano

    Nell’ultimo decennio principalmente l’europeanizzazione della pianificazione territoriale è venuta a costituire un importante  campo di investigazione alla frontiera tra scienza della politica, teoria urbanistica, planning reserach e studi europei. L’impatto dell’integrazione europea sulle culture e la pratica della pianificazione territoriale  a livello nazionale e locale è stato analizzato partendo dall’osservazione del recepimento locale dei programmi ed iniziative europei   (Urban, Leader, Interreg), la costruzione  dell’architettura complessiva dei fondi strutturali e il loro utilizzo locale, o, più recentemente, la relazione tra priorità  territoriali e l’ European Spatial Development Perspective, i cambiamenti introdotti nella pianificazione territoriale locale attraverso numerose politiche dell’Unione , per l’ambiente, i trasporti, l’agricoltura in prima istanza. Considerando le forme di europeanizzazione top-down della pianificazione territoriale, Dühr et al.[2010] ne identificano quattro grandi categorie:

    1) politiche dell’UE con impatto territoriale, specialmente destinate a settori geograficamente definiti (la politica di coesione terriotoriale)

     2) politiche dell’UE con impatto territoriale, ma non destinate a settori geograficamente definiti (la politica di competizione)

     3) La legislazione dell’UE che ha un impatto diretto sulla legislazione locale e le pratiche di pianificazione (come la Direttiva Seveso, Natura 2000, le Direttive sulla Valutazione di Impatto Ambientale, la Water Framework Directive, il re-scaling della Pianificazione delle Acque a livello dei bacini di fiume)

     4) specifiche iniziative, programmi e strumenti  (un esempio tra tutti “Urban”)

    Un’ulteriore categoria potrebbe essere aggiunta: la produzione di concetti di governo che hanno influenza, attraverso quest’ultimo tipo di intervento ma non soltanto, sulla pratica di governo a livello locale. Il Libro Bianco sulla Governance Europea  offre una delle migliori sintesi di questi concetti di governo. Non si riferisce esplicitamente ai livelli territoriali di governance o alla pianificazione territoriale. Ma propone una riaffermazione prescrittiva delle tendenze di innovazione nella pianificazione territoriale promosse nei vari segmenti della polity europea.  I suoi cinque principi (openness, participation, accountability, effectiveness, coherence) costituiscono una rappresentazione schematica della strada intrapresa dagli enti locali europei nella direzione dell’integrazione.

    Anche in questo campo tuttavia l’europeanizzazione deve anche essere compresa come forma di globalizzazione (Nederven 1999, Kriesi 2008, Favell et al. 2011). Il discorso sulla pianificazione, la retorica nella comunità dei pianificatori rimane spesso dipendente delle categorie anglo-americane. Il discorso professionale dominante  trova origine, ci ricorda Sandercock (1998) nella teoria critica della pianificazione e si sviluppa in opposizione alla “pianificazione razionale” e in reazione al disincanto di fronte alla pianificazione a difesa e alle sue successive rivisitazioni. Si sviluppa in primo luogo come tentativo creare un ponte tra il sapere tecnico/esperto e quello esperenziale/personale, ridefinendo la posizione dei pianificatori e risolvendo la separazione tra estensori e beneficiari del piano, quindi cambiando il linguaggio della pianificazione. Secondo la formula di Friedmann, già nel 1973, introducendo reciprocità (apprendimento mutuo) tra le due figure in uno stile “transattivo” di pianificazione. Il tema è declinato  alla fine degli anni Ottanta, con riferimenti alla teoria dell’azione comunicativa di Habermas, da un largo gruppo di pianificatori (John Forester, Patsy Healey, Judith Innes tra gli altri), sottolineando la “razionalità comunicativa” della pianificazione. Centrale nella loro analisi, come lo era nel Retracking America  di Friedmann, è l’attenzione per le relazioni tra sapere e potere. L’orientamento chiave che propongono per rinnovare la pianificazione sta tuttavia nell’architettura “comunicativa” o “collaborativa” del piano, inteso come “discorso aperto”.


    2.4. I diversi contesti di ricezione

    Questi riferimenti nuovi dei professionisti e delle leadership urbane si inseriscono tuttavia in contesti normativi e culturali tradizionali diversificati, non ugualmente rispondenti alle dinamiche dei sistemi urbani, alle esigenze della loro programmazione e gestione, nonché, nel caso dei paesi europei, agli orientamenti politico-amministrativi dell’Unione. Soffermiamoci sul caso, esemplare per quanto riguarda i procesis di cambiamneto delle culture e pratiche amministrative e professionali dei paesi europei. Non è un caso se, negli anni Novanta, la Commissione europea ha impegnato molte risorse in una vasta operazione di bilancio comparato sulle pratiche di spatial planning nei paesi dell’Unione (European Compendium of Spatial Planning Systems, rapporto comparato 1998 e relativi rapporti nazionali successivi [EC 1998b]). Le strutture di spatial planning vi esprimono con immediatezza la varietà delle culture politico-amministrative e delle ripartizioni di competenza tra livelli territoriali di governo, nonché tra privato e pubblico, tra privato «organizzato» e singolo cittadino.

    * Il termine stesso di spatial planning è stato scelto dalla Commissione per designare «l’influenza delle autorità pubbliche sulla distribuzione delle  attività nello spazio» proprio perché neutro, vale a dire estraneo a tutte le tradizioni nazionali. La terminologia in uso esprime, invece, la profonda diversità dei principi di intervento. Vediamone qualche esempio:

     –               ruimtelijke ordening nella tradizione olandese significa in un’accezione molto ampia «produzione» e gestione delle terre come risorsa rara, garanzia di sopravvivenza e di sviluppo della comunità;

    –               aménagement du territoire nella tradizione francese significa pianificazione principalmente economica promossa al livello nazionale, articolata in linee di intervento fortemente costrittive per  i comuni;

    –               town and country planning nella tradizione britannica significa esclusivamente regolazione dell’urbanizzazione pubblica e privata.

    * Il rapporto della Commissione europea individua due linee di differenziazione nelle tradizioni di intervento:

    1)       in alcuni paesi (Germania, Francia, Austria, Finlandia) le pianificazioni sociale, economica, ambientale e delle infrastrutture sono fortemente integrate dal punto di vista funzionale (e in primo luogo sono svolte dagli stessi attori), mentre negli altri ciò non avviene;

     2)       la relazione tra i luoghi della produzione del piano e quelli dell’implementazione varia molto. In Spagna, Grecia e, con alcune eccezioni significative, in Gran Bretagna, si trovano casi in cui gli attori pubblici che hanno prodotto il piano partecipano in misura minima alla sua implementazione.

     Queste due linee di frattura portano alla costruzione di una tipologia che evidenzia quattro approcci tradizionali, tipici di insiemi regionali eterogenei:

     –       regional economic planning approach: la pianificazione spaziale definisce i grandi obiettivi economici e sociali. È l’approccio caratteristico della Francia, del Portogallo, così come lo è stato della Germania orientale;

    –       comprehensive integrated approach: pianificazione e promozione a tutto tondo degli interventi pubblici nelle comunità. È tipico di tutti i paesi nordici e dell’Olanda;

     –       land use management: controllo dell’uso del suolo a livello strategico  e  locale  (Regno  Unito,  Irlanda,  Belgio);

     –       urbanism: l’interesse esclusivo per la struttura urbanistica, il paesaggio urbano e il controllo dell’attività edilizia si esprime in zoning e rigide codificazioni delle caratteristiche architettoniche; rigidità della codificazione e scarsa efficacia del piano sono le due facce della stessa medaglia. È la forma di intervento che caratterizza la tradizione dell’Europa mediterranea e che mal risponde ai bisogni mutevoli di intervento per la trasformazione urbana. Effetto perverso, suscita illegalità diffusa: il mutamento, secondo il processo tipico delle organizzazioni nelle quali si approfondisce all’eccesso il «fenomeno burocratico», avviene negli «interstizi» tralasciati dal controllo [Crozier 1963]. Varianti e abusivismo sono le soluzioni adattive classiche alla rigidità dell’impianto burocratico.

    Al centro della riflessione sulla pianificazione territoriale sviluppata negli ultimi decenni nei paesi di tradizione detta di urbanism stanno la distinzione tra i diversi tempi della pianificazione (i tempi lunghi della definizione strategica di obiettivi, i tempi brevi nei quali gli obiettivi si concretizzano nell’attuazione dei progetti) e la definizione di figure e procedure nuove capaci di promuovere le forme di contrattazione necessarie al governo di sistemi socio-territoriali complessi, e principalmente la negoziazione degli obiettivi e il monitoraggio delle realizzazioni.

    Nei paesi dell’area mediterranea,  queste  riflessioni  hanno suggerito  sperimentazioni etichettate di “pianificazione strategica” , spesso svolte parallelamente  alle forme tradizionali e normate di pianificazione territoriale,   ma  stimolato anche l’inizio di processi di revisione della legislazione urbanistica.

    In Italia, dalla metà degli anni Novanta, due intensi movimenti di riforma investono così l’attività degli enti locali nel governo del loro territorio. Il movimento di revisione delle pratiche e della cultura amministrativa nazionale etichettato ‘pianificazione strategica’ trova dal 1998, con l’esperienza torinese, una sua declinazione ‘territoriale’ che investe in meno di dieci anni, con modalità diverse, alcune province, ma soprattutto molti piccoli e grandi comuni, in particolare una quota importante dei capoluogo di provincia.

    Nel contempo si assiste all’evoluzione, altrettanto dirompente, di modalità di analisi e di tratti operativi di pianificazione fisica (urbana e territoriale) che ha portato dall’inizio degli anni Novanta alla costruzione di nuove procedure di spatial planning.


     2. 5. La pianificazione strategica

     L’espressione «pianificazione strategica» è stata usata in alcuni paesi (Gran Bretagna, Francia, Olanda) a partire dagli anni Sessanta per designare piani sovralocali di stampo socio-economico e di inquadramento territoriale con una prospettiva di medio-lungo periodo. Oggi con questa espressione vengono riassunti orientamenti assai diversi nel rinnovamento delle pratiche di organizzazione della trasformazione urbana.

     Gli elementi definitori, che accomunano i diversi modelli «strategici» di pianificazione, sono tuttavia evidenti [Gibelli 1996, 15]:

    •  La pianificazione strategica è concepita per il governo dei sistemi socio-territoriali complessi

     •  L’approccio all’analisi delle situazioni socio-territoriali è multidisciplinare

     •  È dichiarata la volontà di integrare le politiche di settore

     •  Il piano è concepito come processo, non come prodotto

    •  Si distinguono tempi diversi nella pianificazione (quelli lunghi della definizione strategica di obiettivi, quelli brevi dei piani destinati alla loro realizzazione)

    •   Si definiscono rigorosamente figure e procedure per la contrattazione (nella negoziazione degli obiettivi, per il monitoraggio della loro attuazione)

    Alcuni studiosi delineano una sequenza temporale di generazioni di piani strategici. La storia recente della pianificazione urbana occidentale sarebbe così segnata dalla successione di tre diverse modalità di tentativi di affermazione di modelli strategici di pianificazione.

    1)  Si definiscono sistemici i piani strategici che appaiono alla fine degli anni Sessanta in alcuni paesi europei (gli structure plans inglesi e gli schéma directeurs francesi, ad esempio). Segnano l’introduzione di un sistema di pianificazione su due livelli in cui alla pianificazione «fisica» (development plans) si sovrappongono in posizione gerarchicamente dominante piani di indirizzo economico, sociale e spaziale su vasta scala e con prospettiva di medio-lungo periodo (structure plans) [Planning Advisory Group 1965; Booth-Jaffe 1978; Simmie 1994].

     2)  Si definiscono invece aziendalisti i piani strategici che appaiono negli Stati Uniti e che diffondendosi negli anni Ottanta in Europa si  trovano ancora in parte ben rappresentati in molte delle più note esperienze recenti del Sud Europa.

    Questi piani si ispirano allo strategic planning aziendale che si può definire in estrema sintesi come l’attività (o il processo interattivo) di definizione degli obiettivi di lungo periodo dell’impresa (in termini di prodotti/mercati/tecnologie) integrata con le attività di controllo/ottimizzazione dei processi idonei per perseguire tali obiettivi [Gibelli 1996, 24].

    Le prime esperienze statunitensi di pianificazione aziendale nascono sullo sfondo della deregulation e della penuria di risorse finanziarie. Esse tendono in primo luogo a coinvolgere la «comunità degli affari» nelle decisioni e nei progetti locali attraverso il ricorso crescente al partenariato tra pubblico e privato. I piani strategici che vengono promossi in questi anni privilegiano forme di accordo negoziale con i privati e iniziative di partenariato che prevedono la contrattazione come misura di compensazione volta a produrre benefici collaterali (side-benefits) per la collettività urbana [Fainstein 1994].

    Le prime esperienze europee riferibili a questo orientamento risalgono alla metà degli anni Ottanta. Nel 1987 esce il numero speciale del «Journal of American Planning Association» sulle esperienze di applicazione della pianificazione strategica aziendale al funzionamento delle organizzazioni pubbliche [JAPA 1987] e due anni dopo la ricerca della DATAR [Demeestere-Padioleau 1988] sugli approcci strategici di alcuni comuni francesi. Le leadership urbane imprenditoriali vi vedono l’opportunità per raggiungere l’obiettivo pragmatico del get something done, vale a dire realizzare in tempi brevi piani e progetti coerenti con gli obiettivi dell’amministrazione; ciò significa legittimare il piano, e quindi anche i suoi promotori, con qualche realizzazione visibile. L’inner city policy, nella versione conservatrice degli anni Ottanta, è piuttosto eterodiretta, ma fuori dal contesto anglosassone di quegli anni la pianificazione strategica di seconda generazione si associa al processo di decentramento e di crescente competizione tra sistemi urbani. Nel caso francese, vengono accentuate le propensioni alle politiche per lo sviluppo [Le Galès-Oberti 1993], con progetti «modernizzanti» stereotipati. La Spagna si caratterizza per l’imponente presenza di grandi società di consulting alle quali è affidata l’elaborazione stessa dei piani strategici; si caratterizza inoltre e per il forte accento posto sul miglioramento dell’immagine internazionale e per la costruzione di accordi negoziali solidi fra amministrazione e gruppi di interesse forti, mentre appaiono decisamente sottorappresentati gli interessi deboli e i temi del riequilibrio su scala metropolitana.

    3) Vengono infine definiti reticolari quei piani strategici che rappresenterebbero le risposte ai bisogni più attuali di innovazione nella pianificazione, in particolare al bisogno di garantire la mobilitazione della popolazione per lo sviluppo locale. In questa fase, di terza generazione, la pianificazione strategica tenderebbe a ritrovare l’attenzione per la vasta scala, ma con un approccio incrementale, secondo un modello reticolare e cooperativo di pianificazione che esprime, prima che la ricerca di una razionalità sostantiva (l’ottimizzazione del contenuto delle decisioni), la volontà di migliorare la razionalità procedurale; si tratta in breve di lavorare innanzitutto alla definizione di obiettivi largamente condivisi nella società locale, alla costruzione di un consenso considerato come la condizione necessaria all’efficacia dell’azione pubblica, o, come si afferma a volte più ambiziosamente di “capitale sociale”.  Il movimento italiano di pianificazione strategica territoriale si reclama di questo terzo modello pur adottando procedure che si osservano anche nelle esperienze spagnole: queste procedure hanno per esito la redazione di un piano che partendo dall’analisi del contesto, passando dalla definizione di una “visione” di città, consiste in una raccolta di schede-progetto che raccolgono le adesioni degli attori locali disponibili ad impegnare loro risorse nella realizzazione (cfr. Box).

     

    2.6 Il caso italiano: l’introduzione dell’approccio strategico nella pianificazione territoriale

    Dopo la pionieristica operazione di Torino, conclusasi nel 1998, le sperimentazioni di piani strategici territoriali si intensificano fino alla seconda metà del primo decennio del Duemila, coinvolgendo una quota importante dei comuni capoluogo di provincia, ma anche associazioni di comuni più piccoli. Collegate culturalmente, grazie anche alla costituzione di una rete che facilita lo scambio di informazioni, queste esperienze esprimono nella loro diversità la varietà delle sfide alle quali devono allora rispondere le città italiane nonché delle risorse di innovazione che sanno offrire società e amministrazioni locali. Nascono spontaneamente, si organizzano e si finanziano localmente. Il movimento entra in una fase nuova del suo percorso di codificazione culturale, in parte in continuità, in parte in rottura con il modello che fino ad allora se ne era imposto, con la lettura ministeriale degli indirizzi della programmazione europea 2007-2013, che indica il ‘piano strategico delle città’ come «strumento per ottimizzare le condizioni di sviluppo della competitività e della coesione», lo indica come modello di organizzazione dello sviluppo finanziabile, in particolare nel quadro di programma destinato alle aree meridionali, richiamando il  mainstream italiano, ma piegandolo a logiche accentratrici. Ne risulta una nuova ondata di piani strategici nelle regioni del Sud Italia. Negli anni più recenti, nella pratica degli enti locali italiani, l’etichetta di piano strategico viene allargata a documenti programmatici che raccolgono grandi indirizzi di sviluppo locale e di trasformazione territoriale, fondati su analisi sistematiche esperte e risultati di consultazioni locali, costituiti secondo procedure estremamente diverse e orientati ad inserirsi con successo in linee di finanziamento nazionale ed europee, specialmente nei fondi strutturali 2014-2020. Con la legge Del Rio, la costruzione di un Piano strutturale diventa, per la prima volta, attività obbligatoria di un ente pubblico, la città metropolitana.

     

    Box 3 

    La costruzione di un Piano strategico nell'esperienza italiana

     La sequenza dei lavori prevede due fasi principali di analisi:

     1) una fase di definizione degli obiettivi strategici: dalla definizione collettiva dellla situazione della città (sia del suo posizionamento funzionale attuale e possibile nella gerarchia urbana, sia della sua qualità "fisica" e "sociale) affidata in genere ai tecnici, e dall'enucleazione dei principi di intervento che devono delineare i politici, emerge un modello di città che riassume gli obiettivi del piano;

    2) una fase di definizione delle azioni, dedicata all'identificazione dei temi critici e delle risorse per la realizzazione degli obiettivi. In una fase tecnica dell'analisi, vengono individuate le aree di politica pubblica particolarmente deficitarie rispetto agli obiettivi di piano. All'interno di queste aree si definiscono gli indirizzi politici di intervento e successivamente, previi approfondimenti dell'analisi tecnica, le azioni volte a rimuovere gli ostacoli e i requisiti tecnici per la loro messa in opera in accordo con i principi di intervento definiti nell'arena politica; nonché le risorse economiche e umane, locali ed esterne, alle quali si deve attingere per rimuovere gli ostacoli e raggiungere gli obiettivi di piano.

     Gli organi della pianificazione strategica includono in genere:

     - un comitato promotore, formato da attori privati e pubblici, locali e non, che lancia e sostiene l'iniziativa;

     - un comitato organizzativo, vero e proprio esecutivo, che emerge dal comitato promotore ma nel quale sono inseriti alcuni tecnici;

     -gruppi di lavoro tematici ai quali il comitato organizzativo affida speciali sezioni dei lavori di piano, nei quali la componente tecnica è predominante;

     -organi di partecipazione che consentano una partecipazione ampia della poolazione attraverso i rappresentanti delle sue molteplici strutture di aggregazione.


    Mentre cresceva il movimento verso la pianificazione strategica territoriale e si perfezionava la sua codifica, le Regioni italiane, in grado finalmente di assumere le responsabilità a loro attribuite costituzionalmente in materia di urbanistica,  definivano la propria struttura di pianificazione fisica in rispondenza con le stesse esigenze del contesto, istituzionale e socio-politico, alle quali i piani strategici volevano rispondere. Le soluzioni adottate sono diverse ma nell’insieme i piani fisici di nuova generazione delle diverse regioni italiane sono senza dubbio estremamente ‘strategici’ rispetto alla generazione precedente.

    La proposta guarda ai tempi lunghi, poiché la ricerca della ‘sostenibilità’ la orienta, e solo ai tempi lunghi poiché la realizzazione (la tattica), secondo il principio della pianificazione in due tempi, viene oggi rimandata alla pianificazione di dettaglio.

     Le nuova pianificazione fisica illustra la metamorfosi del  contesto socio-territoriale avvenuta dal dopo-guerra, nel quale era nato il precedente assetto. Il piano non ha più per obiettivo di ordinare la crescita dell’agglomerato urbano, necessità impellente per la crescita demografica e la conseguente richiesta di edilizia residenziale. La sua funzione è di consentire riqualificazione dell’esistente, anche ma non soltanto tramite l’infrastrutturazione ed una adeguata offerta di servizi. Tende prima di tutto a trasmettere alle generazioni future un territorio adatto a consentire una vita armoniosa. Il ragionamento di piano viene quindi invertito: l’azzonamento (cfr. box 4) e il dimensionamento ne rimangono le operazioni fondamentali, ma il punto di partenza sta non nella scelta di aree di espansione, ma nella definizione delle cosiddette invarianti: vale a dire tutti gli elementi, materiali e immateriali che qualificano il territorio. Da quest’analisi dello stato delle risorse da tutelare discendono le ulteriori operazioni di definizione degli orientamenti.

    Box 4 Zoning e azzonamento

     L’azzonamento, vale a dire la delimitazione di aree caratterizzate dalle loro funzioni dominanti e per le quali di conseguenza si definiscono norme per la regolazione dell’uso della proprietà privata, è componente imprescindibile di qualunque procedimento teorico e pratico in urbanistica. Non vi è programmazione dello sviluppo urbano senza individuazione delle aree da tutelare (per il loro valore paesistico, architettonico, storico, sociale), delle aree in cui è conveniente indirizzare l’eventuale edificazione, delle aree destinate ad accogliere gli insediamenti che richiedono particolari condizioni di separatezza (come molte grandi infrastrutture, attività produttive a rischio).

    È quindi un procedimento analitico che, insieme ad altri, viene sempre a comporre l’armamentario dell’intervento pubblico sul territorio.

    Assumere l’azzonamento come strumento principale di questo armamentario e desumerlo innanzitutto da una rigida distinzione tra attività umane – e non soltanto tra ambiti socio-territoriali–: tali sono le caratteristiche di quegli interventi che si ispirano invece alla teoria dello zoning. L’ideologia dello zoning presuppone che il migliorare la funzionalità degli insediamenti e l’accrescere il benessere della popolazione richiedano una stretta separazione fisica tra le attività umane.

    Raggruppare nuclei di attività omogenee opportunamente proporzionate: ciò, si afferma, permette di sfruttare al massimo gli impianti collettivi e gli investimenti pubblici e di garantire ad ognuna delle attività le migliori condizioni di funzionamento. L’approccio porta a distinguere tre tipi fondamentali di zone: residenziali, commerciali e terziarie, industriali. La denuncia dello zoning, che inizia in Europa mentre si realizzano i grandi interventi di edilizia popolare degli anni Sessanta-Settanta, parte proprio dalla descrizione degli effetti di questa rigida separazione tra le zone residenziali e il resto del contesto urbano. L’«area dormitorio» appare dalla sua nascita come area di esclusione (per chi la deve raggiungere faticosamente dopo il lavoro, per chi ci passa la giornata senza l’appoggio di strutturate relazioni sociali, né di servizi pubblici e privati adeguati, e lontano dalla «città»).

    Negli indirizzi nuovi di pianificazione territoriale, gran conto è tenuto poi, con modalità varie, della mobilitazione della popolazione, sotto la veste della comunicazione o della partecipazione. Richiamo ad una definizione soggettiva dell’utilità collettiva da affidare alla popolazione, quindi richiamo alla partecipazione nel disegno e nella valutazione integrata del piano, ma anche richiamo all’interdisciplinarietà sono ulteriori elementi che avvicinano la formazione nuova del piano fisico alla codifica del piano strategico territoriale. Investendo anche – seppure  sempre molto nei proclami e poco nella realtà – la configurazione di professioni che guidano la definizione dei piani, suggerendo più o meno esplicitamente una presenza visibile delle scienze sociali, in particolare dei sociologi nella pianificazione fisica.

    Fig. 4. Gli orientamenti di riforma dello spatial planning italiano

     

     

     

    Nelle sue diverse declinazioni regionali, questo sistema nuovo attribuisce al piano funzioni, contenuti e attori spesso in totale contrasto con quello instaurato dal testo Unico del 1942, che ha modellato fino ad oggi mestieri e mondo dell’urbanistica. Ma è l’intero apparato normativo di governo del territorio e più in generale di programmazione pubblica a trovarsi progressivamente coinvolto in un ampio processo di razionalizzazione e ricostruzione, ancora largamente in fieri. Dopo la definizione, imposta dall’appartenenza all’Unione Europea e del tutto inedita nella storia politico-amministrativa nazionale, di primi indirizzi nazionali di riassetto del territorio (all'occasione della stesura del Quadro Strategico Nazionale emanato a fine di-cembre 2006), il dibattito si è allargato, da una parte allo stesso sistema degli enti locali (dove si ribadisce tra l’altro la necessità di affrontare lo snodo del livello metropolitano di governo), d’altra parte al sistema della pianificazione fisica, oggetto perfino pur senza successo di proposte legislative nazionali di riforma complessiva, nell’intento di recepire e approfondire le trasformazioni già avvenute nelle legislazioni regionali: ciò nella direzione dell’integrazione con la pianificazione socio-economica e della cooperazione tra livelli decisionali: non più quindi mera ‘urbanistica’, ma ‘governo del territorio’.


     

    3. La partecipazione della popolazione alla costruzione dei progetti territoriali


    Le modalità emergenti di pianificazione, che si richiamo, come abbiamo visto, alle teorie della pianificazione "comunicativa", offrono quindi opportunità di espressione alla popolazione interessata. Meri momenti rituali o contributi corposi, la loro efficacia dipende anche dall'efficacia colla quale sono organizzate e dalla loro rispondenza al problema da affronatre e al contesto sociale nel quale si inseriscono.

    L'autoselezione dei partecipanti, disugualmente volenterosi, abituati e capaci è la prima difficoltà che devono affronatre tutti i progetti.  Essenziale per la democraticità e l’efficacia del processo partecipativo è l’attività preliminare di adduzione nell’arena di cittadini che rappresentino le diverse componenti significative della società locale, nonché nelle fasi successive l’incoraggiamento ad esprimersi garantito a chi tra i presenti è meno abituato a prendere la parola in contesti pubblici. La maggiore apertura del processo è garantita da operazioni preparatorie di outreach, attraverso le quali si diffondono informazioni sul progetto partecipativo e si convincono i cittadini a partecipare ma soprattutto dall’estrazione casuale del campione, sulla base di una stratificazione preliminare della popolazione laddove vi siano sufficienti conoscenze sulle variabili significative, o su base totalmente probabilistica.  E’ evidente anche che democraticità ed efficacia sono maggiori quando la consultazione avviene in una fase precoce del processo decisionale,  vale a dire quando i cittadini non possono pensare di essere soltanto formalmente consultati su un progetto comunque già definito ed avviato.

    Le pratiche più solide di consultazione e di partecipazione della popolazione affrontano poi il problema delle disuguaglianze, che continua a porsi nello svolgimento stesso del processo partecipativo, inserendolo in una rigida sequenza di attività temporalmente definite controllata da un facilitatore. Molti dei modelli di riferimento, che tecnicamente si ispirano all’intervista collettiva o al brain storming costituiscono architetture complesse, lungamente collaudate, ideate e sperimentate spesso in altri paesi occidentali, a volte sviluppatesi più particolarmente nel contesto nazionale (Bobbio 2001).

    La partecipazione è fruttuosa se ad un ambiente disteso corrisponde rigore nell’osservanza delle regole, regole chiaramente annunciate e che tendono in primo luogo a dare ad ognuno la stessa capacità di intervenire, e nella gestione dei tempi, affidati al facilitatore.  Queste regole vanno declinate diversamente a seconda dei contesti e dei casi, in particolare del tipo di problema o di progetto, del suo stadio di definizione, nonché  del grado di conflittualità che può già avere suscitato.  Pochi esempi saranno sufficienti ad illustrare, senza pretesa di esaustività,  la varietà di proposte  alle quali si possono oggi ispirare gli enti locali, in particolare  nella trasformazione urbana.

     ■L’EASW (European Awareness Scenario Workshop, è strategia di riflessione di gruppo fondata sulla costruzione di scenari alternativi, ideata in Danimarca per sostenere scelte collettive attente alla salvaguardia ambientale (per ciò è stato nel 1994 adottato dalla Direzione Ambiente della Commissione Europea). Incentra l’attenzione sull’influenza dello sviluppo tecnologico e le sue conseguenze diverse a seconda delle opzioni di politica pubblica. Prevede un laboratorio di circa due giorni nel quale lavorano una trentina di partecipanti, di quattro categorie: politici o amministratori, operatori economici, tecnici e esperti, cittadini. I lavori si articolano in due fasi principali di lavoro in gruppo seguiti ognuno da una discussione plenaria: nella prima ciascuna delle categorie di attori definisce in relazione al tema proposto due possibili scenari futuri, quello catastrofico nel quale si realizzano tutti i rischi immaginabili, quello idilliaco nel quale sono realizzati invece tutti i vantaggi immaginabili. Se ne desumono in discussione plenaria, quattro temi  cruciali, su ognuno dei quali lavora nella seconda fase uno dei quattro gruppi che vengono allora costituiti, e che questa volta includono ognuno attori delle diverse categorie. Ogni gruppo lavora allora ad enucleare idee di intervento sul tema, presentati in una nuova plenaria, nella quale si seleziona in conclusione al processo la rosa delle cinque idee più significative, suscettibili di essere oggetto di progettazione.

    ■L’Action Planning, d’origine anglosassone, anch’esso fondato sul ragionamento dicotomico in scenari, è invece applicabile ad una varietà di situazioni legate alla predisposizione di linee di intervento urbanistico. E’ processo lungo, che include tre o quattro sessioni di lavoro di un giorno su due mesi circa, durante le quali partendo da domande ampie sulla situazione del contesto territoriale, nelle sue dimensioni positive e negative, si precisano poi le previsioni di cambiamento, negative e positive, per arrivare alla definizione individuale di linee-guida adatte a garantire la realizzazione dello scenario positivo ed evitare i rischi di quello negativo. Supporto di espressione privilegiato è il post-it, che consente anonimato e libertà di espressione anche a chi non è abituato ad esprimersi in pubblico, i cui contenuti sono poi confrontati su tabelloni riassuntivi. UN discussione finale consente a partire dalle proposte di linee- guida di definire un piano di azione condiviso.

    ■L’Open Space Technology, di origine statunitense è il modello di processo partecipativo più direttamente ispirato al brain storming, utilizzabile in una vasta gamma di contesti e su molti temi diversi. Consiste in un incontro di una giornata che si struttura il giorno stesso a partire delle dichiarazioni iniziali di interesse dei partecipanti in una serie di tavoli di discussione. Chi propone un tema si impegna a organizzare il tavolo e a rendicontarne i risultati. I partecipanti sono liberi di passare da un tavolo all’altro a seconda dell’interesse o del disinteresse che provano in ognuno, meccanismo in grado di stimolare l’impegno collettivo. Alla fine della giornata sono condivisi i risultati delle discussioni nei tavoli.

    ■Il Planning for Real, ideato in Gran Bretagna, in questo caso per il perfezionamento di progetti di riqualificazione di quartieri, utilizza per stimolare l’espressione un modello tridimensionale dell’area soggetta a trasformazione. Ai partecipanti è chiesto di scegliere tra carte-opzioni rappresentanti possibili azioni  migliorative (infrastrutture, attrezzature…) e di apporle sul plastico, commentando col facilitatore i motivi della loro scelta. Le carte rappresentano interventi la cui fattibilità tecnica e finanziaria è stata verificata dai servizi tecnici dell’amministrazione locale. Ai partecipanti è fornito nello stesso luogo la documentazione utile sull’intervento. Altri supporti di espressione possono essere previsti, come post-it o relazioni scritte.

    ■Le camminate di quartiere sono interviste collettive in movimento, diffusamente utilizzate in molti paesi europei per sostenere operazioni di riqualificazione di diversa natura, nelle quali un gruppo di abitanti (da 10 a 30), scelti perché socialmente rappresentativi della comunità interessata, trasmettono ai professionisti le loro interpretazioni della situazione dei luoghi attraversati ed eventuali suggerimenti di progettazione. Della camminata sono sempre definiti punto di partenza e punto di arrivo; il tracciato può essere predefinito oppure può essere motivo di discussione la scelta del percorso, di modo a meglio comprendere le strategie di evitamento o certe modalità di qualificazione dei luoghi. La camminata si conclude con un momento di confronto finale in cui si riassumono di concerto le osservazioni emerse durante la passeggiata.

    ■Una strategia partecipativa adatta alle fasi finali di progettazione, ma soprattutto alle fasi di cantierizzazione, che non affronta sistematicamente la questione dell’autoselezione dei partecipanti, qui meno pungente per l’estrema localizzazione e quotidianità già assunta del progetto, è quella del punto. Il punto è così denominato in riferimento sia alla struttura fisica, uno sportello per il pubblico collocato in un’area in corso di trasformazione, sia all’attività di bilancio aggiornato sull’avanzare del progetto che vi viene svolta.  Garantisce il contatto durante le fasi di lavoro tra le imprese, il committente pubblico e i cittadini.  E’ strumento di comunicazione dell’ente pubblico, che vi diffonde l’informazione sul progetto e la sua progressione, ma anche un luogo possibile per l’attivazione degli abitanti che vi possono lasciare segnalazioni, richieder incontri, proporre modifiche alle pratiche di realizzazione: l’orientamento è quello di una “direzione sociale” dei lavori.

    ■La formula del laboratorio di quartiere, nata in Italia negli anni Ottanta, è formula diffusa nel contesto nazionale nella riqualificazione dei quartieri o la progettazione di spazi pubblici. Concepita per stimolare la trasmissione agli operatori della riqualificazione delle conoscenze del contesto e delle proprie esigenze, da parte della popolazione (ma anche dei ragazzi delle scuole), si fonda sull’apertura di un luogo dedicato, nel quale si possa per un tempo piuttosto lungo, sviluppare, almeno in tre-quattro incontri un dialogo tra le diverse categorie interessate:  abitanti, progettisti, amministratori, imprese. Gli strumenti utilizzati sono vari: libere discussioni, costruzione di scenari, costruzione di mappe dei bisogni o delle risorse, post-it e tabelloni, lavori a gruppo su particolari temi.  Poiché destinato principalmente, non a suggerire decisioni su base maggioritaria, ma a stimolare l’attaccamento al progetto e ai luoghi da parte degli abitanti (il ché porta spesso anche ad una certa ambiguità della figura del progettista che non di rado agisce anche come mediatore), il laboratorio di quartiere si caratterizza per il rifiuto di qualunque selezione dei partecipanti su criteri di rappresentatività. Efficacia e democraticità del modello sono quindi strettamente legati alle sue capacità di allargarsi ad una parte significativa della popolazione.

    ■ Un’esperienza particolarmente coinvolgente, di difficile gestione amministrativa ma efficace per il livello di partecipazione popolare raggiunto, è quella del bilancio previsionale partecipato di Porto Alegre, ormai diventata un riferimento classico in Italia. Ogni anno le assemblee dei rappresentanti di quartiere di Porto Alegre varano il processo. Nel mese successivo assemblee popolari in ogni quartiere definiscono le priorità di investimento su una quota del bilancio definita dal Comune. I delegati dei quartieri al forum regionale negoziano sulla base delle liste di priorità così definite, per arrivare a un quadro di obiettivi raggiungibili, distinti per settore e circoscrizione.

    ■In alcuni paesi dell’Europa settentrionale e negli Stati Uniti sono state utilizzate in diversi settori di politica pubblica (ad es. i trasporti le «giurie di cittadini»: questi ultimi vengono consultati su temi di interesse generale secondo una distribuzione campionaria che li rende rappresentativi dell’intera popolazione, offrendo loro la possibilità di essere informati da esperti e il tempo di formarsi un’opinione.

     ■ I «sondaggi d’opinione deliberativi», più puntuali, utilizzati per verificare l’adeguatezza di specifiche scelte di politica pubblica, prevedono un accertamento dell’opinione della popolazione a conclusione di un dibattito condotto entro un campione rappresentativo di cittadini [Bobbio 2002].

    ■ Gli strumenti di empowered deliberative democracy prevedono invece una consultazione dei soli stakeholders, cioè di tutti coloro che hanno interessi in gioco (o di quanti li rappresentano). L’ottica è quella della risoluzione negoziale di conflitti su progetti specifici o in aree delimitate di politica pubblica [Bobbio-Zeppettella 1999; Bobbio 1994].