introduction to philosophy week 3

introduction to philosophy week 3

di BIGOZZI ISABELLA -
Numero di risposte: 4

Ecco il resoconto della week 3 del mio mooc.

Lo stato è molto esigente nei nostri confronti, richiede di pagare le tasse, di fornire informazioni e l'obbedienza a innumerevoli leggi. Ma abbiamo davvero l'obbligo di obbedire? E se sì, da cosa deriva tale obbligo? E se non fossimo davvero tenuti a rispettare le leggi, quali sarebbero le conseguenze? Il Dr Guy Fletcher evidenzia per prima cosa la differenza fra conformarsi alla legge e obbedire alla legge. Ci si conforma quando si paga le imposte sul reddito perché si vuole evitare di incorrere in sanzioni. Si obbedisce alla legge quando ci si ferma allo stop perché così è previsto che si debba fare, anche se non c'è nessuno in vista. La differenza tra conformarsi e obbedire alla legge è interessante in stati come la Germania ai tempi di Hitler: sicuramente i cittadini dovevano conformarsi alla legge, altrimenti le conseguenze sarebbero state terribili, ma avevano l'obbligo di obbedire alla legge? Secondo alcuni autori il cittadino deve obbedire alla legge per gratitudine nei confronti dello stato che gli riserva grossi benefici. Ma l'obbligo di obbedire può derivare dalla riconoscenza nei confronti di un benefattore? Se qualcuno mi paga la cena quello che gli devo è un ringraziamento, non devo certo obbedire alle sue richieste. Secondo Hobbes e Locke il consenso al governo genera l'obbligo di obbedienza alle leggi: abbiamo dato il consenso allo stato e abbiamo dato il consenso ad obbedire alle sue leggi, perciò  dobbiamo farlo. Allo stesso modo se si è un dottore si ha, fra gli altri l'obbligo della reperibilità e se si è un prete cattolico si ha l'obbligo del celibato. Il lato debole di questa teoria insiste nel fatto che presumibilmente solo gli immigrati adulti, entrando in uno stato, hanno dato il loro consenso ad obbedire alle sue leggi; la teoria interessa dunque un numero molto limitato di persone. Inoltre abbiamo davvero dato il consenso allo stato? Se sì dovremmo essere anche in grado di ritirarlo. Un cittadino dovrebbe scrivere allo stato dicendo che ritira il suo consenso? E supponendo che questo fosse possibile come può lo stato basare l'obbedienza alle sue leggi sul consenso se fosse così facile ritirarlo? La teoria del consenso aggira il primo problema distinguendo tra consenso espresso e consenso tacito: non è necessario dare un consenso espresso allo stato, ad esempio con un giuramento, noi esprimiamo tacitamente il nostro consenso usando i servizi pubblici, permanendo all' interno dello stato, andando a votare. Allo stesso modo la teoria risolve il secondo problema: si può ritirare il consenso tacito non usando i servizi pubblici, abbandonando il territorio, non andando a votare. Quanto al terzo problema, per mettere in crisi lo stato la maggioranza delle persone dovrebbe mettere in atto questi comportamenti, e in questo caso sarebbe giusto un cambiamento di rotta. D'altronde le cose non sono così semplici perché a volte al governo vanno persone che non sono state votate dagli elettori (ad esempio governi tecnici), è facile non usare gli autobus ma risulta impossibile non usare le autostrade, abbandonare il territorio potrebbe essere non attuabile ad esempio per motivi economici. E se il problema dell'obbligo politico fosse insolvibile? Allora sarebbe giusta l'anarchia. Gli anarchici credono che lo stato sia un'istituzione illegittima e che non ci sia nessun obbligo di obbedire alle sue leggi.

Il secondo modulo della week 3 è centrato sul problema dell'attendibilità  di ciò che ci dicono le altre persone. Gran parte di quello che sappiamo deriva dalle testimonianze altrui. Secondo Hume noi dobbiamo far affidamento su ciò che ci viene detto in base all'attendibilità  del soggetto che ci sta parlando. Se in base all'evidenza è probabile che chi ci parla non stia mentendo o non si stia sbagliando, allora possiamo credere in quello che dice. Perciò se ci viene detto che è successo un miracolo (evento che si discosta dal normale procedere degli avvenimenti), non possiamo credere ai testimoni perché in base all'evidenza è molto più probabile che mentano o si stiano sbagliando piuttosto che il miracolo sia avvenuto. Secondo Reid Hume si sbaglia e possiamo fare affidamento su ciò che gli altri ci dicono allo stesso modo in cui ci fidiamo dei nostri sensi, come se il fatto raccontato l'avessimo visto con i nostri occhi. Reid concorda con Hume che non possiamo avere alcuna certezza che quello che ci dicono i nostri sensi sia vero, tuttavia, dice Reid, noi siamo portati con forza a fidarci dei nostri sensi e parimenti abbiamo una forte propensione a credere a ciò che ci viene detto; questa propensione è più forte nei bambini piccoli quindi non può derivare dal ragionamento come pensa Hume: se non fosse un dono di natura come potrebbero fidarsi i bambini che di sicuro non soppesano l'affidabilità  di chi sta parlando in base ad un ragionamento e all'esperienza. Si potrebbe obiettare a Reid che il pensiero di Hume riguarda ciò che le persone dovrebbero fare, non ciò che fanno: le persone dovrebbero dare peso alle testimonianze in base a principi di aderenza alla realtà  e affidabilità  di chi parla, anche se spesso danno credito a qualunque diceria. Tuttavia è interessante la considerazione di Reid secondo cui applicando il principio della diffidenza si perderebbero un'infinità  di benefici e la nostra società sarebbe peggio di quelle primitive. Reid sostiene che ci si può fidare delle persone perché mentire va contro la natura dell'uomo, che avrebbe una propensione per l'onestà. Invece Hume, attenendosi all'evidenza, rileva che l'uomo mente per ottenere un vantaggio grazie alle menzogne, per rendere interessante quello che dice e ricevere attenzione: ad esempio, le storie dei viaggiatori, ammantate di mistero, fanno presa sugli ascoltatori. Corollario del pensiero di Hume è che l'uomo deve formare le sue opinioni e credenze principalmente con le sue forze, usando la sua testa. Questo ci ricorda il pensiero di Kant che nel saggio del 1784 "che cos'è l'illuminismo" descrive la fuoriuscita dell'uomo da uno stato di minorità, di dipendenza dal pensiero degli altri. L'uomo deve raggiungere un'autonomia intellettuale che gli permetta di ragionare per conto suo e formare il proprio pensiero, senza dipendere dalla guida degli altri. L'autonomia intellettuale di Hume e Kant contrasta con quello che potremmo definire solidarietà intellettuale o spirito sociale emergenti dal pensiero di Reid. La conformazione e riproduzione sociale stanno dalla parte di Reid e la libertà  dell'individuo dalla parte di Hume e Kant? O questa autonomia intellettuale è una condanna all'isolamento?

Un saluto da Isabella
In riposta a BIGOZZI ISABELLA

Re: introduction to philosophy week 3

di GALLIGANI BEATRICE -

Essendo Hume uno dei miei filosofi preferiti, nonchè oggetto della mia tesi triennale, non posso esimermi dall'appoggiare il suo punto di vista approfondendo la questione.

Hume si occupa della testimonianza nel momento in cui si impegna a mettere in discussione che i miracoli possano essere razionalmente addotti come prova dell'intervento divino.
Dove per prova si intende un'evidenza empirica totale, mentre, laddove ci siano evidenze contrastanti e una parte sopravanzi l'altra, si parla di probabilità.

La testimonianza di un miracolo non pù essere una prova completa perchè:
  • non c'è alcun miracolo affermato di un numero sufficiente di uomini noti per buon senso cultura ed educazione, tali da garantire che non ci deluderanno e dotati di un'integrità tale da porci al riparo da ogni dubbio su quanto affermano;
  • la passione umana per il sorprendente e il meraviglioso, essendo un'emozione gradevole, induce sensibilmente a credere negli avenimenti dai quali scaturisce;
  • i racconti sovrannaturali e miracolosi si trovano in abbondanza principalmente presso le popolazioni più ignoranti;
  • non c'è per alcuno dei miracoli una testimonianza che non sia contrastata da innumerevoli testimoni oculari;
  • portare  un fatto empirico come prova contro una legge naturale (stabilita da un'esperienza fissa e inalterabile) è evidentemente inalterabile.

Da tutto questo consegue non solo che un miracolo non può mai essere provato ma anche che l'esperienza uniforme che contrasta con qualsivolgia avvenimento miracoloso costituisce una prova diretta e completa contro l'esistenza di qualsiasi miracolo.

Ulteriore conseguenza di questo ragionamento è che la religione non può fondarsi che sulla fede; pretendere di dotarla di un fondamento razionale adducendo come prova i miracoli è assolutamente insensato e, addirittura, controproducente.