introduction to philosophy week 2 modulo 2

introduction to philosophy week 2 modulo 2

di BIGOZZI ISABELLA -
Numero di risposte: 3

Buongiorno, ecco il resoconto della week 2, modulo 2 del mio mooc.

Il secondo modulo della week 2 affronta il tema della conoscenza: che cos'è la conoscenza, in che cosa si differenzia conoscere qualcosa dal credere in qualcosa o dall' ipotizzare? E che tipo di conoscenza ci è possibile avere? Viviamo nell' era dell'informazione accessibile con un click, ma questo non sembra essere tanto utile se non siamo in grado di distinguere la buona informazione da quella cattiva. Perciò il problema epistemologico assume un ruolo chiave oggi. Quali sono i costituenti base del conoscere? Il Professor Duncan Pritchard parte dalla conoscenza proposizionale. Con una proposizione definiamo lo stato di un oggetto, asseriamo che nel mondo l'oggetto ha determinate caratteristiche, si trova in una determinata posizione. La conoscenza proposizionale può essere vera o falsa perché il linguaggio proposizionale può assumere un valore di verità affermativo o negativo: il gatto è sul tavolo oppure il gatto non è sul tavolo. Dunque la conoscenza richiede la verità. Se io affermo che "il gatto è sul tavolo" è una proposizione vera, allora so che il gatto è sul tavolo. Questo è il primo fondamento della conoscenza. Consideriamo ora le frasi "l'uomo è stato sulla luna" e "è probabile che l'uomo sia stato sulla luna". La prima affermazione è molto più forte della prima, esprime una conoscenza; la seconda solo una supposizione in quanto esiste la possibilità  che l'uomo non sia stato sulla luna. La seconda base della conoscenza è che per conoscere qualcosa bisogna credere in qualcosa. Unendo le due basi si ottiene una prima definizione di conoscenza: la conoscenza è una credenza vera. Ma credere in qualcosa di vero non è sufficiente per conoscere qualcosa. Consideriamo il caso di una giuria che arrivi a una sentenza di colpevolezza in base ad un mero pregiudizio nei confronti dell'imputato e supponiamo che l'imputato sia in effetti colpevole. La giuria ha dunque una credenza vera ma non possiamo dire che sia conoscenza perché è basata sul pregiudizio. Consideriamo ora il caso di una giuria che formula il giudizio analizzando minuziosamente le prove a carico dell'imputato e le testimonianze, aderendo strettamente all'evidenza dei fatti . La prima giuria ha emesso un giudizio giusto solo per una questione di fortuna, la seconda in base ad un ragionamento. Così si può concludere che si ha conoscenza solo se la nostra vera credenza non deriva dal caso (anti luck intuition o ability intuition); il soggetto deve esercitare le sue abilità  cognitive, che risultano rilevanti ai fini della trasformazione di una vera credenza in conoscenza.

Questa visione della conoscenza è classica, risale ai tempi di Platone. Secondo gli antichi la conoscenza è una vera credenza supportata da un ragionamento giustificativo. Edmund Gettier nel 1963 in un breve articolo descrisse dei casi in cui la teoria classica non funzionava. Si tratta di controesempi in cui sono soddisfatte le condizioni sui cui si fonda la teoria della conoscenza classica ma, allo stesso tempo, il fatto che ci sia conoscenza è  solo una questione di fortuna. Semplificando, viene riportato come controesempio il caso di una persona che guarda l'orologio appeso al muro della sua casa, orologio che ha sempre funzionato e che riporta casualmente l'ora corretta dato che si è fermato 12 ore prima. Un modo per risolvere il problema posto da Gettier potrebbe essere quello di aggiungere un'ulteriore condizione alla teoria classica e dire che la credenza non può basarsi su assunti falsi, non si può partire da un lemma falso.

Tuttavia quando formuliamo una credenza spesso non abbiamo una lista di assunzioni e non scartiamo quelle false. Un uomo che guarda l'orologio pensa che l'ora sia giusta, non pensa: "sto assumendo che l'orologio non abbia problemi". Non è così semplice aggirare il problema di Gettier. Secondo lo scettiscismo la nostra conoscenza è molto limitata e per lo scetticismo radicale semplicemente non è possibile. Lo scettico argomenta che non possiamo sapere per certo di non essere dei cervelli in una vasca, con degli elettrodi che mettono il cervello in contatto con un software che simula il mondo intorno a noi e tutto quello che crediamo vero. Questa è l'idea alla base del film "Matrix".

Buona festa e un caro saluto da Isabella

In riposta a BIGOZZI ISABELLA

Re: introduction to philosophy week 2 modulo 2

di FORMICONI ANDREAS ROBERT -

Anche questo è interessante. Il fatto è che la conoscenza si sfalda nella complessità. Conoscenza senza moneta non esiste. Intendo moneta da lanciare. Qualsiasi cosa tu affermi, in misura magari molto piccola, spesso assai grande, ti affidi al caso. Come dire un po' ci scommetti. L'esempio dell'orologio è interessante. È enorme la lista dei problemi che quell'orologio potrebbe avere, ingannandoti, ma solo un pazzo potrebbe pensare di vivere con questo approccio iper-analitico dei problemi.

E anche la conoscenza scientifica si sfalda di fronte alla complessità. La quasi totalità della ricerca biomedica non è in grado di dimostrare i fenomeni ma di verificarli a fronte di un certo prezzo convenuto di sbagliare, con i famosi livelli di significatività dei test statistici e con la potenza statistica dei medesimi.

In riposta a BIGOZZI ISABELLA

Re: introduction to philosophy week 2 modulo 2

di GALLIGANI BEATRICE -
Vista la mia passione per la filosofia, vorrei problematizzare un aspetto relativo all'assunto in base al quale la conoscenza è una credenza vera supportata da giustificazioni elaborate mediante abilità cognitive.
Tale assunto si basa sulla teoria della corrispondenza tra il contenuto dell'affermazione e l'effettivo stato delle cose, riprendendo l'esempio del gatto la frase "il gatto è sul tavolo" è vera quando si può riscontrare a livello percettivo (vedendo, toccando...) che il gatto è sul tavolo.
Riassumendo: se la corrispondenza è verificata empiricamente allora si parla di verità.

A mio avviso tutto questo sembra escludere l'esistenza di eventuali differenze percettive in base alle quali uno potrebbe vedere il gatto sotto il tavolo, sul divano o potrebbe non vederlo affatto;   allora la frase "il gatto è sul tavolo" risulterebbe falsa per quella persona, ma vera per altre persone? 

In tal caso la frase "il gatto è sul tavolo" risulterebbe vera e falsa allo stesso tempo il che, da un punto di vista logico-semantico, è intrinsecamente contraddittorio in virtù del principio di bivalenza per cui ogni proposizione o è vera o è falsa (aut-aut). 
Inoltre, percorrendo questa via, ci si scontrerebbe o con l'idea per cui la verità e, dunque, la realtà dipendono da ciò che ogni individuo, isolatamente, pensa; oppure con la concezione -del tutto assurda- per cui qualcuno percepisce in modo "giusto" e dunque sviluppa ipotesi corrette, e qualcun altro invece percepisce in modo sbagliato. Di qui sorgerebbero immensi problemi, per esempio: chi dovrebbe distinguere la percezione "anomala" da quella "normale"? E in virtù di quali criteri? e questi criteri sarebbero contingenti e mutevoli, oppure eterni e necessari?

Per uscire dal ginepraio si potrebbe supporre la necessità di un gruppo di persone, così da poter confrontare le varie ipotesi nate in virtù delle percezioni e capire quale sia la più largamente condivisa, e dunque affidabile o, meglio, plausibile (non si parla più di verità).

In tal caso un'ipotesi si può dire plausibile solo quando vi convergano le credenze -giustificate razionalmente- della maggioranza delle persone.
Questa spiegazione, per la quale propendo, rieccheggia un testo di C. S. Peirce:Le leggi dell'ipotesi, testo che mi ha fatto penare non poco ma che, alla fine, ho trovato davvero illuminante.

Riprendendo e semplificando un ragionamento di  Peirce, direi che la definizione corrispondentistica della verità è accettabile esclusivamente da un punto di vista pragmatico, dunque a livello delle condotte pratiche che ne derivano, e solo nella misura in cui si parli di una ricerca scientifica in correlazione con le credenze dalle quali essa sorge e col dubbio (inteso come quella situazione in cui la realtà di un oggetto può essere rappresentata da più proposizioni):

"L'ipotesi H è vera se e solo se è creduta da tutti alla fine della ricerca scientifica."
Tesi questa, che si può scomporre in :
- "se H è vera allora, alla fine della ricerca, tutti crederanno in H"
- "se la ricerca viene prolungata e H è creduta da tutti, allora H è vera"

Da chiarire che per Peirce dire che qualcosa è vero significa che questo qualcosa non fa sorgere dubbi e che, di conseguenza, il concetto stesso di realtà è classificato come ipotesi, plausibile sì, ma comunque un'ipotesi.

Se invece parliamo di corrispondenza mondo-pensiero, la teoria corrispondentistica della verità diventa inaccettabile in quanto presuppone la possibilità di stare al contempo fuori e dentro il pensiero così da contemplare e dunque riscontrare l'eventuale corrispondenza col mondo.
In riposta a GALLIGANI BEATRICE

Re: introduction to philosophy week 2 modulo 2

di BIGOZZI ISABELLA -

Anche il gatto sembrerebbe essere diversamente conoscibile a seconda che sia osservato oppure no, almeno a livello quantico, come nell'esperimento della doppia fenditura: 

Come sostiene il costruttivismo e in precedenza Kant la realtà dipende dalla struttura conoscitiva del soggetto; inoltre l'osservazione del soggetto influenza l'oggetto. Perciò ha senso affermare, con la fenomenologia, che la verità non è né soggettiva né oggettiva, ma è una verità "per noi", posizione che mi pare sia la stessa dell'autore da te citato.

Un caro saluto da Isabella